Figure statiche eppure in movimento. Luci che illuminano e nascondono. Ombre immaginate o reali. Tutto è possibile, ma anche no, in “Invisible City” di Veronica Gaido, titolo della sua prima personale in America ospitata dal Consolato Italiano di New York fino al 30 luglio.
«Guardando le città, ho immaginato che i palazzi avessero un’anima e che venisse fatta intravedere solo a pochi, io sono uno dei fortunati», ha detto la fotografa per introdurre il pubblico al suo viaggio in diverse realtà urbane, New York, Milano, Miami, Tokyo, trasformate dal suo obiettivo in volumi dinamici in bilico tra percezione del reale e immaginazione creativa. Gaido utilizza l’obiettivo come un pennello. Grazie alla lunga esposizione, la vita diviene continua nella foto. Diviene linee, contorni e onde, non a fuoco ma infinite.

L’intento di “Invisible City” (la mostra a New York è curata da Maria Vittoria Baravelli), è rendere omaggio a Italo Calvino, e alle sue città invisibili, nel centenario della sua nascita.
Tra le pagine del libro di Calvino, Marco Polo descrive a Kublai Khan le città che ha incontrato mentre i due conversano in un giardino. E se quest’ultimo «non crede necessariamente a tutto», dice Marco Polo, ascolta con interesse quelle descrizioni fantastiche, che sono forse inventate, o, forse, racchiudono le possibilità immaginative di ciò che una città potrebbe essere. Descrivendo le città, tutte con nomi di donna, Marco Polo comprende dettagli che agli occhi degli ambasciatori dell’imperatore appaiono senza significato, invisibili. Si tratta di città reali e immaginarie.

Nel viaggio di Veronica Gaido, che è insieme artistico, letterario e architettonico, ci sono molteplici realtà: «Quando fotografo un edificio o una città, cerco di vedere il movimento dinamico all’interno, come se fossero corpi viventi – spiega Gaido – Gli edifici nascondono mondi che non conosciamo, vite che con ogni probabilità non entreranno mai in contatto con noi – prosegue l’artista – Credo che la fotografia sia uno strumento efficace per esplorare la memoria e per intraprendere un viaggio che è anche spirituale. Attraverso l’uso di immagini, catturo tracce del passato per evocare i ricordi legati alle città, un po’ come faceva Calvino».

Veronica Gaido ha iniziato a fotografare da adolescente, ha studiato a Milano all’Istituto italiano di fotografia e debuttato nel 2001 collaborando con la biennale di Venezia al bunker poetico di Marco Nereo Rotelli. Nel 2002 ha allestito la sua prima mostra “Sabbie mobili” a Forte dei Marmi. Nel 2012 ha presentato alla triennale di Milano un video realizzato per la fondazione Henraux con un drone per le riprese aeree. Nel 2013 tra India e Bangladesh ha scattato le foto di “Atman”, mostra itinerante da Pietrasanta a Milano, Londra, Parigi e New Delhi. L’anno successivo realizza “Mogador” scattato nel porto di Essaouira.
Ora è la volta di “Invisible City”. Cerchiamo di guardare le sue foto attraverso il suo sguardo perché, come diceva Antoine de Saint-Exupéry, l’essenziale è invisibile agli occhi, ma forse nel caso di Veronica Gaido lei è uno dei fortunati capaci di mostrarcelo.
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