Nowhere-Now Here è il titolo della mostra di acquerelli di Fulvio Testa, in corso alla Victoria Munroe Fine Art fino al 29 di ottobre. Come suggerisce il titolo, è una mostra filosofica, che invita alla meditazione sul paesaggio, e su quel non luogo in cui ci ha trascinato la pandemia.
Si tratta di evocazioni di paesaggi. Non paesaggi specifici, ma piuttosto paesaggi mentali, ridotti all’osso: terra, cielo una suggestione di colline e di nuvole. La sfida pare essere quella di mostrare un paesaggio interiore, un paesaggio universale di tutti e di nessuno. Una terra desolata, primordiale, senza traccia dell’uomo, eppure radiosa, piena di potenzialità.
Una ventina di opere simili per tecnica e dimensione, ma che ognuna declina il tema in un suo modo specifico attraverso, luce, colore, densità e trasparenza. La maestria tecnica di Testa si traduce in essenzialità e una semplicità luminosa che ripercorre per sintesi l’idea del paesaggio dall’acquarello settecentesco all’immagine digitale.
FT: La mia ultima personale a New York, è stata nel 2012, nel frattempo il mondo delle gallerie, —è molto cambiato. Come il mondo in generale. Quindi sono felice di esporre con Victoria Monroe, è una persona che stimo, aveva avuto dei miei lavori 35 anni fa quando aveva una galleria a SoHo in cui ho partecipato a una mostra collettiva. Poi ho iniziato a esporre a New York con altre gallerie, e lei dopo poco, ha trasferito la sua attività a Boston. Poi tre anni fa abbiamo avuto modo di incontrarci e le è piaciuto ancora il mio lavoro.
AC: Il mondo è cambiato, ma tu sei rimasto legato, mi viene da dire, fedele al tema del paesaggio, continuando a declinarlo….
Il tema del paesaggio, come lo intendo io, è un tema strano, un tema filosofico. Con il tempo, apparentemente, il paesaggio dipinto è stato soppiantato dalla fotografia. Ma il paesaggio fotografico è qualcosa di molto più “attuale”, “concreto”, mentre a me interessa l’idea del paesaggio. Quarant’anni fa, ovvero dopo la stagione del Minimalismo c’è stato un ritorno al paesaggio, a un certo tipo di paesaggio, mentre per me è sempre stato un tema centrale.

Puoi essere più specifico sul tipo di paesaggio che a te interessa? Ogni acquarello nella mostra mi pare possa essere letto tanto quanto una forma di figurazione che come astrazione.
Ci sono stati periodi in cui ciò che dipingevo aveva caratteristiche più astratte e altri meno. Ma è importante tenere a mente che quello che io dipingo sono paesaggi mentali. Sono fatti sempre nello studio, mai dal vero. Sono la distillazione dell’osservazione. Paesaggio è per me tutto quello che ci circonda.
La sensazione, guardandone uno, poi un altro, poi uno accanto all’altro e poi tutti, è che stai dipingendo il vuoto. Dunque il paesaggio come dimensione spaziale, senza vegetazione e senza presenza umana. Non paesaggi specifici, ma appunto l’idea di paesaggio come luogo che visitiamo con gli occhi.
Vedi, tu parli di vuoto. Il vuoto è molto legato al concetto di spazio. Nel mio lavoro quello che cerco di definire è il senso di spazio. Questo è dato dal concetto di orizzonte. Nell’accezione comune, per orizzonte si intende il futuro, la potenzialità. Nello spazio, l’orizzonte è quella linea che cerchiamo di raggiungere senza possibilità di successo.
L’orizzonte, nei tuoi lavori è un po’ il fulcro, la linea che separa e definisce la terra, dal cielo.
C’è uno racconto di uno scrittore di cui non ricordo il nome, in cui un figlio chiede al padre “che cos’è l’utopia?” E il padre: “L’utopia è quella linea che vediamo in fondo. La chiamiamo orizzonte e ci serve a capire che cos’è la vita”. Allora il figlio dice, “Ma se tu vai avanti, sembra che quella linea, quell’orizzonte sia sempre nello stesso posto”. E il padre, “è vero, ma bisogna camminare. E l’utopia serve a camminare, a andare avanti. La trovo bellissima perché parte da una domanda che non ha una possibile risposta soddisfacente.
Siamo abituati a pensare al paesaggio come una distesa orizzontale. La tua mostra invece presenta una maggioranza di lavori verticali. Per me quelli verticali, hanno una qualità, un impatto che evoca piuttosto lo sguardo da una finestra.
Esatto! Il mio scegliere dei formati verticali in effetti è legato a un’idea di finestra sul paesaggio A una visione limitata del paesaggio stesso. Non è uno spazio senza misura, a perdita d’occhio, ma uno spazio definito dal formato della carta. Questa mia resa del paesaggio terrestre, con delle pennellate continue che formano diciamo pure delle righe, in effetti è legata alla visione della pittura nella modernità, dove la piattezza è presa in considerazione. Da Cézanne in poi si è rimasti stregati da questa, dal concetto dello spazio piatto, perché suggerisce uno spazio che non c’è.
I lavori orizzontali si differenziano dagli altri anche perché, a differenza dei verticali sono esposti con passe-partout
Il fatto che quelli verticali siano senza passe-partout è stata una scelta della galleria, a cui non mi sono opposto: Ma in realtà, io ho sempre esposto i miei disegni o acquarelli nella maniera classica, con un passe-partout. In questa mia abitudine convergono diverse considerazioni. Francis Bacon, per esempio, aveva l’idiosincrasia —qualcuno direbbe la mania— di presentare i suoi dipinti a olio sotto vetro, che è una cosa completamente contraria a quello che si è fatto per secoli. Inconsciamente sento di aver abbracciato questa sua idea, che in qualche modo riporta alla finestra. Il vetro è una chiusura tra quello che è immaginato e quello che è visibile. L’uso che io faccio del passe-partout per i miei lavori su carta, per me è un corrispettivo dell’uso del vetro che faceva Bacon. E’ un’inquadratura, è come mettere un lavoro in uno scrigno.
Come spettatore, mi sembra che le tue opere si prestano simultaneamente a letture molto diverse. Si può privilegiare l’aspetto astratto e vederle come alternanze di densità e trasparenza, sfumature di colore, pura forma. Oppure lasciarsi sedurre dalla suggestione di terra cielo, nuvole e colline in lontananza… O, e qui, la cosa si fa più interessante, accettare entrambe le suggestioni.
Nelle cose che faccio, voglio dare la possibilità al colui che guarda di immaginare qualcosa che spesso è diverso da quello che ci vedo io. Guardare è sempre un’interpretazione.
Nel 1978 durante un viaggio in America del Sud, ho passato un periodo in Amazzonia con modalità piuttosto avventurose. Rientrato in Italia ho fatto una serie di incisioni, da cui è stata fatta una cartella che ho intitolato Bestiario Vegetale. Questo perché quando ero in Amazzonia attorniato da una vegetazione fittissima e alberi enormi, nell’assenza quasi totale di tracce umane, prendevano le sembianze di animali e di cose immaginate. Questo avveniva naturalmente solo nella mia immaginazione. In modo simile, sono aperto al fatto che chi guarda i miei paesaggio possa vederci, colline, montagne, case, nuvole oppure solo pennellate e astrazione.

Se non sbaglio, ad eccezione di alcuni acquarelli più grandi (quelli orizzontali) la maggior parte della mostra è stata concepita durante la pandemia. Pur essendo la continuazione di una ricerca ormai matura che si è evoluta negli anni, si ha l’impressione che questo lavoro sia una tua risposta a quella necessità di guardare a noi stessi e al mondo esterno, con occhi nuovi, che abbiamo avuto un po’ tutti durante il lockdown.
Assolutamente sì. Sono lavori concepiti durante un periodo di isolamento e probabilmente a qualche livello lo riflettono. Ma ci sono anche altri elementi da tenere in considerazione, che mi hanno portato a evidenziare questa aridità. E’ un’aridità che riconosciamo perché legata a quel che abbiamo vissuto durante gli ultimi tre anni. Ma c’è anche altro. Qualche anno fa, forse quattro, sono state diffuse alcune immagini di Marte. Ricordo che quando sono apparse, sulle riviste scientifiche e sui giornali queste immagini di Marte prese da dei robot, sono stato colpito da quei deserti. Deserti che quasi non presentano differenze rispetto ai deserti che ho visitato nel Sud Ovest degli Stati Uniti e in Africa. Dunque una doppia lettura, da un lato qualcosa che è già avvenuto (la paralisi del lockdown) e dall’altro la paura dell’avanzare della desertificazione in corso, che non sappiamo a cosa ci porterà.
Presagi distopici?
Forse sì, ma anche molto altro. Per tornare a Marte, G.I. Gurdjieff pensava che questi pianeti che noi vediamo senza vita, erano la terra di una volta, dove dopo una grande distruzione è finito tutto. Lui diceva che siamo destinati alla stessa fine.
Credo che l’artista non fa mai qualcosa di completamente astratto. Il concetto di creazione artistica, rifiuta il limite, la lettura univoca, almeno per me, è sempre aperta a letture diverse. Chi ha poca dimestichezza con il processo creativo tende a limitarne la portata, pensando che una data immagine voglia dire specificamente una data cosa. Prendiamo ad esempio Picasso che in questo è un maestro. Spesso nelle sue opere parte da qualcosa, ma alla fine è passato attraverso dieci, o diecimila stadi, in cui tutte le cose si combinano a seconda delle esigenze. Quando mi si chiede “ma che cosa volevi fare?” mi si chiede un’assurdità.
Come definiresti il tuo processo creativo?
È un po’ come nelle arti sciamaniche, ti metti al servizio della creatività, non è che la usi. Creatività è una parola che non amo, ma in certi casi è bene usarla per mancanza di alternativa. Arte è una parola troppo grande, decorazione purtroppo ha assunto una connotazione ristrettissima. Storicamente la decorazione, l’artigianato, l’arte erano spesso aspetti del lavoro dello stesso individuo.
L’artista tedesco che ha inventato l’acquaforte alla fine del quindicesimo secolo, si chiamava Daniel Hopfer. Viveva facendo le armature per Massimiliano D’Asburgo. Sulle armature faceva delle decorazioni, e ha poi capito che questa sua tecnica decorativa, poteva poi essere impiegata per qualcosa di libero. Lui ha fatto anche delle incisioni indipendenti dal lavoro di decoratore di armature, ma quello che mi preme dire è che sebbene sia considerato tra i più importanti artigiani/decoratori di corazze, la sua intuizione tecnica è stata la base per l’acquaforte, ovvero una pratica artistica che ci ha accompagnato per secoli.

Le definizioni spesso limitano piuttosto che illuminare il lavoro degli artisti, finiscono per essere un filtro culturale, un modo di leggere…
Certo ed è solo colpa nostra. Nella Parigi ottocentesca, Honoré Daumier era considerato un artista dai principali artisti suoi contemporanei. Oggi, nonostante centinaia di sculture, pitture litografie e disegni, lo si pensa solo come caricaturista. È un filtro culturale, un modo di leggere.
Parlami dell’acquarello. In fondo la pittura più antica, quella delle caverne era fatta di acqua e pigmento… da allora all’acquarello moderno cosa è cambiato?
L’uomo primitivo mescolava ocre con acqua, ma l’acquerello che noi conosciamo, non è antecedente al 1600. Probabilmente nasce in Inghilterra. L’acquerello moderno si discosta da altre forme di pittura a acqua in modo piuttosto netto. Ci permette quello che ad esempio le tempere non consentono.
La trasparenza?
Esattissimo, la trasparenza e il contrasto con la densità. Molte tecniche, anche storicamente più antiche, sono affini all’acquerello, ma non hanno quelle caratteristiche. I cinesi mille e più anni fa si può dire che facessero degli acquerelli, ma non esattamente. Bisogna aspettare la fine del seicento quando gli inglesi creano quelle che saranno molto a lungo le principali ditte produttrici di acquerelli. Gli acquerelli da allora consentono un innumerevole serie di possibilità e passaggi.
Sembra semplice: acquerello, acqua, pennello e carta…
L’acquerello ha sempre come contropartita la carta. Se la carta non è buona, l’acquarello non può essere impiegato al massimo delle sue possibilità.
Hai fatto molto altro, ma il lavoro con l’acquerello ti accompagna da decadi…
Ho cominciato a lavorare con gli acquerelli nel 1971, e non ho mai smesso. Ho sempre disegnato a matita e con la penna a china, ma cinquant’anni fa ho aggiunto l’acquerello. Inizialmente ho guardato a questa tecnica occupandomi di illustrazioni di libri per bambini. Ho illustrato sia testi di altri che successivamente storie mie, ma al di là di quei libri molti dei quali sono stati pubblicati un po’ dappertutto. In parallelo, ho iniziato a fare acquerelli per me, poi esibiti in molte mostre in epoche e paesi diversi fino a quella di cui stiamo parlando.

Si nota subito una maestria, una dimestichezza con il mezzo, che ti consente una grande libertà. Quando li guardi da principio sei cosciente che stai guardando un acquerello, poi progressivamente assumono una loro corporalità, che ti fa dimenticare che sono acquerelli, divengono altro.
Come qualsiasi cosa che non ha esaurito, le possibilità, l’acquerello può ancora sorprendere. Io ricordo nel 1960, un atleta tedesco ha vinto i 100 metri alle Olimpiadi di Roma, si chiamava Armin Hary, in 10 secondi netti. Sessanta due anni dopo si sono rosicchiati altri 15 centesimi di secondo. Questo è avvenuto perché le tecniche, i materiali, le scarpe stesse hanno consentito questo piccolo passo avanti. Così anche nella tecnica dell’acquerello si può sempre migliorare.
So che lavori anche a olio, cosa specificamente ti continua ad attrarre all’acquerello?
Non è come una buona pittura coprente, che permette di dipingerci sopra se non si è soddisfatti. Una tempera la si può correggere, un acquerello non e’ correggibile. Si può al massimo cambiarlo. Devi accettare quello che è avvenuto. E questo è una grande sfida. L’acquerello è molto restrittivo, ma nella restrizione trovo il senso della libertà.
Mi colpisce molto, l’apparente semplicità dei tuoi acquerelli.
La differenza tra elementare e semplice, è una distanza come tra la A e la Z. L’elementare è il materiale A,B,C ecc., la semplicità, usando questi materiali (acquarello e carta) è il massimo che si può ottenere, è il punto verso il quale si lavora.
Spesso i lavori in serie hanno qualcosa di formulaico. Qui invece ogni paesaggio pare aggiungere qualcosa al precedente. Similitudini e diversità invitano a uno sguardo più attento, riflessivo.
Cerco sempre di puntare verso la giustezza, la giusta misura. Sopratutto in questa mostra dove gli orizzonti sono tutti piatti, la luce, —come nella realtà—è quella che rende un giorno, o una stagione diverso dall’altro. Il nostro sguardo, la nostra vita, rischia di diventare di una monotonia spaventosa, ma è la luce, che trasforma ogni momento in qualcosa di diverso. Il cambiamento di luce ci suscita la voglia di vivere, scoprire, andare avanti. La mia è una ricerca di un equilibrio dove luce, misura, proporzione si combinano.
Questa mostra, ha rovesciato, la mia convinzione che un evento come la pandemia da Covid-19 avesse bisogno di tempi lunghi prima di poter essere materia per elaborazione artistica. Su un tavolo nella seconda sala della galleria c’è un tuo album, che affronta un’altro evento epocale: gli attentati dell’11 settembre 2001…
Quando c’è stato l’attentato e il crollo delle torri gemelle ero in Italia, ma sono arrivato a New York dopo un mese. Appena ho potuto, sono andato a trovare un amico, un pittore inglese, —vivo per miracolo— che abitava appena a sud di dove sorgevano le due torri. Tramite lui, mostrando il passaporto, ho potuto passare gli sbarramenti e raggiungere Ground Zero. L’album che hai visto è una sequenza di 20 immagini inventate, reinterpretazioni, che ho creato l’anno scorso ripensando a quella devastazione. Dunque ho fatto quell’album. Indipendentemente frequentavo Serge Gavronsky una persona straordinaria, grande poeta, ha insegnato a lungo anche a Columbia a Barnard, e avevamo spesso parlato di cercare un’occasione di collaborazione
So che hai “collaborato” spesso con poeti…
Sì ho avuto incontri e scambi importanti con vari poeti. Tra gli altri Andrea Zanzotto, Luciano Erba, e in America con Robert Bly. L’anno scorso, a vent’anni dall’11 settembre, ho prospettato a Serge una collaborazione. Lui ha accettato abbinando a queste mie immagini poesie che hanno lo stesso tema, e che lui aveva composto, nel 2002. Dunque l’album ha 20 miei acquarelli del 2021corredati dalla sua trascrizione a mano delle proprie poesie.
Sei a New York dopo la pandemia, ci sei venuto dopo l’11 settembre, cosa continua a attrarti, dal 1981, a questa città?
Non conosco le megalopoli asiatiche, ma tra le grandi città che conosco, New York ha caratteristiche uniche. Ci sono città che vanno incontro alle esigenze dei mercati e altre, alle esigenze dell’uomo. Con New York ho avuto momenti di crisi, mi sono chiesto se questo fosse il posto migliore per me, ma questi dubbi sono stati messi in secondo piano grazie a piccole epifanie che ho avuto e continuo ad avere quando sono qui. New York è un luogo per certi versi unico, dove l’individuo ha bisogno e spesso la possibilità di confrontarsi con l’altro individuo. Questa per me è la grande attrattiva. Mi è sempre rimasto impresso che solo vent’anni dopo la fondazione di questa città, quindi nella prima metà del 1600, qui si parlavano già venti lingue diverse, quindi, chissà perché, è praticamente nata come luogo di incontri.