È lo street artist newyorkese Gaia a salutare la città di Pisa dopo la chiusura della mostra Attitude | Graffiti writing, Street art, Neo Muralismo, la collettiva dedicata all’Urban Art, comprensiva di oltre cento lavori contemporanei e terminata solo nei giorni scorsi.
L’esposizione, curata da Gianguido Grassi e organizzata presso lo storico Palazzo Blu di Pisa, è rimasta aperta circa quattro mesi e si è conclusa con la realizzazione di sei opere di Gaia, rappresentative dei sei continenti visitati dall’artista e riproposti nel suo stile figurativo, tramite icone dirette a raccontare le storia, la cultura e la natura di quei luoghi.
L’artista ha chiuso l’esposizione con un’opera dipinta dal vivo in onore di Keith Haring (che è stato il protagonista in una mostra nel medesimo Palazzo Blu fino al 18 aprile scorso), e che Gaia ha chiamato Tuttomondo, esattamente come il murales che lo stesso Haring realizzò a Pisa nel 1989: “Questo lavoro cerca di incapsulare la portata concettuale incredibilmente ampia della mostra in una sintesi di simboli che rappresentano l’invasione e la viralità. Il globo terrestre è al centro della composizione con un morso strappato al suo corpo come la mela della mitologica storia della genesi di Adamo ed Eva. Intorno alla terra ci sono immagini al microscopio elettronico a colori di virus, un anello di fiori invasivi che da diversi continenti si sono diffusi inavvertitamente attraverso viaggi e commerci, e infine una serie di aeroplani, l’emblema fondamentale della globalizzazione”, afferma l’artista.


Nelle opere esposte, colori, immagini e icone sono al centro della installazione. Forme definite con cura, nelle quali si distingue la sovrapposizione armoniosa delle sagome, come pure il loro accostamento. Terre, animali e personaggi dominano i suoi lavori: un incastro studiato delle sue visioni, nelle quali emerge forte, alla stregua del collage – sua prerogativa – l’impronta pop, sociale e contemporanea, impossibilitata ad astrarsi dal contesto reale in cui è perfettamente integrata.

Lavori affascinanti e dinamici. Vivaci e pieni di energia. Nei quali affiora, delicata, una sorta di impalpabile fierezza, in grado di lasciare la sensazione che si possa ancora sperare in un futuro migliore e, soprattutto, più giusto. Opere da ammirare e, oserei aggiungere, da ascoltare, considerata la scelta felice delle icone così sapientemente accostate alle storie che, tramite i suoi personaggi, i simboli, le visioni Gaia traduce e valorizza, anche ricorrendo a dimensioni importanti e cromatismi accostati in contrasto fra loro, sempre fortemente radicati alla storia e ai valori dei luoghi in cui sorgono le opere. Quasi una esigenza, la sua, di raccontare l’identità – la narrazione storica, sociale e antropologica – dei posti che ha visitato.
Provo a comprendere meglio il suo percorso di artista e di esploratore, al fine di entrare più a fondo nell’origine dei lavori di questo giovane cosmopolita, che in pochi anni ha firmato opere uniche al mondo, tra le quali, solo per citarne alcune, il Double St Michael (Nationalism), a Kiev, (Ukraine for Art United Us); lo splendido Pronkstilleven, a Kingston (New York) con O Positive Festival; Maturity, insieme a 999 Contemporary, a Roma e moltissime altre.
Gaia, cosa cerca quando viaggia? E cosa trattiene?
Sono sempre stato attratto dagli spazi abbandonati e sfitti, dai tunnel sotto i nostri piedi e dagli altri spazi di infrastruttura e di transito. Oltre ad essere luoghi perfetti per praticare le tecniche pittoriche, l’architettura e l’uso del sito raccontano una certa narrativa sulla città. Dopo aver acquisito familiarità con l’ambiente, è importante esplorare i regimi estetici della cultura. Partendo da questa familiarità fondamentale, si possono raccontare altre storie che si spera abbiano una risonanza più profonda con il pubblico che incontra immediatamente il murale.
C’è un posto che l’ha cambiata, come uomo e artista? O che porta sempre con lei?
La mia vita personale si basa sulla dualità di due città. Cresciuto a New York, nel bel mezzo della fiorente scena della Street Art del 2007, sono stato in grado di definire un nome all’inizio della mia carriera. Trascorrendo i successivi quindici anni a Baltimora al di fuori dell’ombra dei grandi nomi all’interno del movimento, sono stato in grado di definire veramente il mio rapporto etico con il mondo, in un panorama irto di lezioni di iniquità e resilienza. Baltimora è una città di sfide uniche e ha plasmato la visione del mondo con cui percepisco altri luoghi in cui viaggio. In un certo senso, ovunque io viaggi è come un pezzo di un puzzle verso una “teoria del tutto” senza limiti noti. Solo una domanda senza fine che sfocia in opere e interventi pubblici.
I suoi lavori sono veri e proprio progetti: articolati e studiati. Talvolta complessi. Qual è il punto di inizio delle sue opere, dove hanno origine?
La mia ricerca su un luogo parte da un obiettivo molto ampio per poi affinarsi verso un concetto singolare. Spesso è utile avere una serie di stakeholder locali che possono fornire critiche sulla ricerca raccolta e sui progetti proposti. Questo approccio dialogico assicura che le mie ipotesi visive stiano effettivamente ottenendo i risultati desiderati. L’obiettivo è essere sia visivamente sbalorditivi, sia leggermente sfidanti per le presunzioni con cui costruiamo le nostre identità. È un approccio pericoloso che rasenta l’orientalismo, ma se il risultato ha successo, il murale può essere sia celebrativo che contemplativo.
Quale o più elementi la convincono a scegliere la storia di un luogo piuttosto che un altro?
Certo, è difficile dire esattamente quale sarà il concetto definitivo di ogni murale. Spesso, come detto, parto da una rete molto ampia. Ma dopo anni passati a conoscere molte regioni interconnesse, sono stato più efficiente con il focus della mia analisi. Al momento, voglio raccontare storie marginali non riconosciute dalle istituzioni e riempire questi buchi nella nostra memoria pubblica collettiva. Riconoscere la presenza della First Nations, l’esistenza Queer e la resistenza radicale sono i miei argomenti preferiti.
Cosa è per lei l’ispirazione?
L’ispirazione è una correlazione e una connessione insolite. Confronti poetici che ci permettono di mettere in discussione ipotesi, ma anche pregiudizi e convinzioni.
Se dovesse raffigurare Pisa, quali elementi legati alla sua identità utilizzerebbe?
Quando dipingo in Italia, penso che sia importante sfidare e problematizzare la nozione di nazione, mercantilismo ed esplorazione. Inoltre, la natura protettiva degli assetti urbani medievali europei è intrigante. Pisa offre l’opportunità di giocare con la sciocca nozione di “scoperta” con i contributi scientifici di Galileo, e ci sono molte strade di metafora quando si affronta un argomento del genere.
Ricordiamo che la mostra Attitude | Graffiti writing, Street art, Neo Muralismo, è stata curata da Gianguido Grassi e realizzata da Start – Open Your Eyes, prodotta da Fondazione Pisa, con il patrocinio di Comune di Pisa, Provincia di Pisa, Regione Toscana, Consiglio Regionale della Toscana, con il sostegno di Università di Pisa, Scuola Normale Superiore e Scuola Normale Superiore Sant’Anna.
Info: https://gaiastreetart.com
