Nel 1989, il newyorkese più pop del mondo, allora ancora poco conosciuto in Italia, ma già tra i pionieri della street art internazionale, Keith Haring, realizzava a Pisa la sua opera più importante, peraltro l’ultima, Tuttomondo. Il murale da allora è meta di tour turistici e culturali. Realizzato su una parete di 180 metri quadrati (lunga 18 metri e alta 10) costituisce il retro della diocesi adiacente alla Chiesa di Sant’Antonio Abate. Una visione personale e, allo stesso tempo universale, della vita e della sua idea di futuro. Un segno di speranza e fiducia verso quella terra che Haring sapeva avrebbe lasciato da lì a poco. Un’opera apprezzata e contestata, di cui non sempre se ne è compreso il valore perché, quando non si comprende qualcosa, non si capisce neanche e, peggio ancora, si rifiuta.

Il murale rappresenta il mondo che Haring ci augura, pieno di colori, simboli, convivenza pacifica e nel quale, come nel più classico dei fumetti (ricordiamo che da quelli ha origine il suo stile), il bene sconfigge il male. Ma non sono supereroi a sconfiggere il male, bensì esseri umani, tutti, senza distinzioni di etnia o genere; persone che nei suoi lavori appaiono in tutta la loro nuda bidimensionalità e che, insieme, si trasformano in un’unica entità – un paio di forbici – che collabora a uno scopo comune.
Sono tanti i simboli che popolano i suoi lavori, sempre associati o finalizzati a rappresentare fatti, circostanze, ingiustizie, condizioni, valori, con la semplicità di chi ambisce a rendere comprensibile il proprio linguaggio, a trasformare un gesto grafico in un segno universale, immediato, intuibile anche agli occhi di un bambino. A pretendere che l’arte sia alla portata di tutti, dunque da tutti comprensibile e ovunque fruibile, in grado di incuriosire o far riflettere qualsiasi osservatore.
E proprio a Pisa che, oltre al murale Tuttomondo, è possibile visitare la sua mostra presso lo storico Palazzo Blu di Lungarno Gambacorti. Una esposizione che evidenzia la grandezza di Haring, la sua capacità di “convertire” tutto il suo vissuto in segno, linea, sintesi. E in quella ossessiva immediatezza grafica garantire il valore della relazione. Della comprensione e condivisione della esperienza. Nella semplicità come nella capacità – e qui sta la sua grandezza – di racchiudere in quei suoi tratti infiniti, intersecati e sovrapposti, l’idea della sua visione di vita e di arte, ma anche di dolore e di speranza, seppur rielaborata in un tempo breve, ma evidentemente abbastanza intensa e profonda – certamente autentica – per aver saputo cogliere quali elementi dovesse possedere e quali forme trattenere per conservarne il senso.
“Quando dipingo vivo un’esperienza che nei momenti più felici trascende la realtà: quando funziona entri in un’altra sfera, ti avvicini a qualcosa di universale, a un senso di consapevolezza che va oltre te stesso. Di questo si tratta”. Così aveva dichiarato a David Sheff in una delle sue ultime interviste, quella del 10 Agosto 1989, per la rivista Rolling Stone.