La città è Venezia, 58esima Biennale d’arte contemporanea. Lui è Milovan Farronato, curatore del Padiglione Italia: innovatore, rivoluzionario e visionario, nonché ideatore del suo Labirinto, ovvero l’allestimento che ha progettato e realizzato per l’occasione, nel quale, attraverso lo studio di spazi e la creazione di sezioni, è riuscito a far coesistere, insieme, le opere d’arte di tre diversi autori – Enrico David, Chiara Fumai e Liliana Moro – differenti per stile e poetica. Grazie al suo eccezionale allestimento, i lavori esposti coesistono e dialogano tra loro, si valorizzano e creano, reciprocamente, una nuova, positiva e, pertanto, costruttiva energia. Allo stesso tempo, proprio la progettualità labirintica degli spazi, con l’inevitabile ripetitività di percorrenza degli stessi – impossibile non ritrovarsi davanti a opere già viste qualche minuto prima o in uno spazio già visitato – invitano lo spettatore a ripensare e riflettere. È “tornando sui propri passi” che s’innesca il confronto con l’opera: nulla fa da guida, né accompagna nella osservazione e, lui, lo spettatore – disorientato – si ritrova a volere approfondire le percezioni cui è sollecitato e che la mostra gli rimanda ogni volta in modo nuovo. Scegliendo e riscegliendo i suoi percorsi. Dei quali nessuno è sbagliato.
Così Milovan chiede di farsi parte attiva, di assumere una presenza viva, forse performativa, certamente esperienziale della mostra. Ci concede una libertà – e una fiducia – cui non siamo abituati, una condizione, seppur artistica, che non conosciamo ma che ci dà la possibilità di poter scorgere, discorrendo tra opere e visioni – “dietro una tenda, sotto un tavolo, dentro il riflesso di uno specchio – una qualche rivelazione, piccola o grande che sia”, come lo stesso Farronato afferma. Ed è proprio in questa condizione che risiede il senso dell’arte, ovvero nella capacità dell’opera di rivelare una qualche verità – cui l’artista approda durante il compimento del suo lavoro e, alla quale, l’osservatore approda (o dovrebbe) durante la sua osservazione.
Lo conosco il 10 maggio, durante l’inaugurazione del Padiglione Italia.
Milovan, credo che anche il tuo allestimento possa essere considerato un’opera d’arte, o sbaglio?
“Non sono un artista. Ho solo cercato di far dialogare le opere di tre autori diversi e di indurre lo spettatore a guardarle da più punti di vista. Quindi, a riflettere sulle varie possibilità di comprensione dell’opera – come dovrebbe essere nella vita – grazie alla condizione di libertà che il labirinto concede”.
Come per Il Pozzo di San Patrizio di Liliana Moro? E anche per altre sculture e opere, poste in modo scomodo o addirittura, ribaltato?
“Certo. Nel caso de Il Pozzo di San Patrizio ho proprio alzato il punto di vista al fine di mostrarlo dall’alto. Così l’osservatore può soffermarsi a guardare l’opera diversamente, ma anche in modo completo. In generale, ho cercato di valorizzare, nella loro pienezza, il potenziale cognitivo dei lavori che ho scelto, concedendo più prospettive. Lasciando che ognuno scegliesse la sua. Nessuna sbagliata”.
Artista, curatore e critico. Oltre all’arte, cosa accomuna queste tre figure?
“Certamente sono tutti e tre “autori”. Ma hanno l’intenzione, le finalità differenti: a me piace analizzare, criticare, discutere, raccontare. Trovo soddisfazione in questo”.
Condividi se dico che l’Artista produce secondo un processo più o meno irrazionale mentre il critico e il curatore operano in modo razionale? L’uno, il critico, decodifica i segni-simboli dell’artista; l’altro, il curatore, li valorizza?
“Assolutamente sì. Tuttavia, da curatore, mi lascio trasportare dalle mie intuizioni, associazioni, il mio irrazionale. Quando vedo mi illudo di aver compreso. Quando scrivo inizio a capire”.
In rappresentanza dell’Italia alla Biennale, il tuo labirinto oltre al saggio di Italo Calvino attinge ad altri riferimenti o esperienze?
“Come direttore artistico di Fiorucci Art Trust, dal 2011 curo il Festival di arti performative di Stromboli. Con Fiorucci, da allora, ogni anno, sotto un vulcano attivo, accendiamo le luci di questo Festival. Il prossimo si aprirà il 18 luglio e si concluderà negli scavi archeologici di Pompei il 21 luglio. Per il 2019 abbiamo scelto Maria Loboda, artista polacca trasferitasi da anni a Berlino. Direi che vivere Stromboli, ha inciso profondamente sul significato del tempo e del suo scorrere, soprattutto considerati i tempi dilatati che governano questi luoghi, nei quali bisogna imparare ad aspettare, come che cessi l’alta marea per spostarsi. Il che vuol dire accettare altre dinamiche, altre regole: quelle della natura non sempre si confanno con le esigenze sociali e di controllo dell’uomo. Infine, a livello simbolico e comunque, figurativo, il “labirinto” è’ uno spazio di transizione nel quale si sa quando si entra ma non quando si esce. Un luogo nel quale non si può controllare il tempo, perché non più prioritario. Da qui il suo dilatarsi. Inoltre, con i tre artisti avevamo pensato a delle parole chiave sulle quali basare il tema e la scelta delle opere da esporre alla Biennale. Tra queste, la “transizione” era stata condivisa da tutti, anche in alcuni testi di Chiara Fumai. E il labirinto è, infatti, un passaggio di transizione che può essere inteso non solo nella sua accezione architettonica, ma anche in quella metafisica e simbolica, come passaggio da una dimensione ad un’altra; come quella esistente tra la vita e la morte. O in talune performance di arte”.
Durante l’inaugurazione del Padiglione Italia, il presidente Paolo Baratta ha affermato che la “scelta” è la parole chiave di questa Biennale: è la “scelta” che ci permette di vivere in modo consapevole; di assumere delle responsabilità, di rischiare. Attraverso la scelta possiamo vivere in modo pieno, appagante. Tu, la tua scelta – quella del labirinto – l’hai fatta. Hai mai avuto perplessità, paure, dubbi o ripensamenti sul tuo progetto?
“Assolutamente no. Né ho mai avuto timori nel portare avanti il mio progetto e realizzarlo. Le difficoltà sono diventate uno stimolo. E l’ho portato a termine con il supporto di un grande staff – peraltro quasi tutto al femminile – e la forza di un ministero che mi ha scelto”.
Percorro il labirinto.

Delle opere mi colpiscono molto quelle di Liliana Moro, soprattutto per l’eleganza e la raffinatezza: La Spada nella Roccia (1998-2019), totalmente in vetro di Murano, è una scultura epica e trasparente, nei cui simboli – e nella cui storia – abitano il senso della forza e del potere ma, soprattutto, della conoscenza, senza la quale, né il potere né la forza hanno motivo di esistere. Così il potere privo della conoscenza perde qualsiasi valore, compreso quello della trasparenza. Un’opera molto attuale – considerando l’arco di tempo in cui è stata realizzata – con la quale l’artista precorre i tempi e le vicende che caratterizzano la società.
Anemos (2019), il levriero argentato che tenta di prendere una foglia in volo, si trova in una posizione instabile: probabilmente in equilibrio fra lo slancio verso la vita e l’incertezza del divenire, la paura, la caducità che alla stessa appartiene. Collocata sopra un alto piedistallo, appare in tutta la sua instabilità e ci fa temere che possa cadere da un momento all’altro. La lontananza dalla più immediata prospettiva ci induce a guardarlo e riguardarlo in tutto il suo slancio e movimento.
Diversamente, Avvinghiatissimi (1992) si rivela in tutta la sua forza e intensità, proprio per l’essenzialità degli elementi utilizzati. In modo istintivo e drammatico, l’opera richiama l’attenzione dei presenti: il suo intenso e decadente senso poetico è accentuato dal tango di Astor Piazzolla suonato su un vecchio nastro graffiato; la stretta della cinghia rossa non lascia possibilità di resa; una passione che rimarrà sigillata nella morsa dei due materassi di gommapiuma, uniti insieme, in eterno.

Nel passaggio da uno spazio a un altro intercetto le sculture di Enrico David, tutte suggestive, talvolta mostruose, spesso asessuate, probabilmente correlate a un tempo arcaico, dimenticato. Mi impressiono e immagino che quelle presenze appartengano a mondi mai visti, apocalittici, o forse, più semplicemente, sono solo proiezioni di un vissuto in trasformazione, i cui i dettagli – spesso deformi – si identificano in una fase, uno stato del sé e delle esperienze più profonde.

Infine, mi soffermo sul murales di Chiara Fumai, The last line cannot be traslated (2017), opera postuma dell’artista scomparsa prematuramente nel 2017: il suo lavoro, concluso negli ultimi mesi di vita, fa pensare a un codice primitivo, come fosse una traccia recuperata da una sacerdotessa pagana intenta a compiere un rito abbastanza potente da allontanare tutte le ingiustizie e i condizionamenti originati dalle gerarchie patriarcali. Una invocazione tacita, che nel suo perimetro frastagliato conserva tutta l’energia della vita delle sue sorelle, trapassata nella storia della donna e della stessa artista.