Coniugare bellezza e funzionalità è uno dei must del design italiano. La passione per i dettagli, per i materiali artigianali, per l’eleganza delle linee sono un’attrazione per i cosmopoliti abitanti di New York che hanno affidato e affidano agli architetti italiani ristrutturazioni, progetti innovativi, edifici civili e spazi pubblici. Meet the New Italians of Architecture & Design, l’appuntamento che il Consolato italiano ha organizzato giovedì sera nella sede di Park Avenue ha aperto le porte degli studi di progettazione di alcuni professionisti italiani che si sono stabiliti nella Grande Mela.
Il console Francesco Genuardi ha sottolineato che da nove mesi questi incontri consentono di mettere in contatto quella parte di comunità italiana che ha realizzato le sue aspirazioni professionali con quegli italiani che vogliono perfezionare gli studi in questa città e costruire qui la loro carriera. “Il talento italiano nel design e nell’architettura si è espresso straordinariamente nelle strade di Manhattan – ha detto il console – Basta guardare alla ristrutturazione della Morgan Library ad opera di Renzo Piano, al nuovo B&B Italia, alla mappa della metro disegnata da Massimo Vignelli.” Ma New York non è la sola città a mettere in mostra “il rigore, la passione, la nostra capacità artistica – ha precisato Genuardi – ed è per questo che il 2 marzo 2017, il governo italiano ha deciso di istituire la prima giornata internazionale del design e le sedi consolari e le ambasciate in tutto il mondo stanno già preparando un ricco calendario di eventi”.
Dopo l’annuncio a sorpresa, che ha suscitato l’applauso dei presenti, la parola passa agli architetti e ai designer che attraverso la loro storia fatta di incontri, di casualità, di collaborazioni, di scelte convinte hanno costruito la loro carriera nella metropoli.

Rossana Capurso, fondatrice dell’Atelier LLC, pugliese di nascita e romana d’adozione, ha confessato di aver ereditato dal padre la passione per l’architettura e le foto scattate nei suoi viaggi a Londra, Parigi, Berlino le hanno inculcato una grande attenzione per le linee architettoniche. Poi è atterrata a New York: “C’erano ancora le Torri gemelle ed è scoccata la scintilla. Doveva essere un viaggio di riposo dopo le notti di lavoro nello studio di Massimiliano Fuksas – un’ esperienza dura che mi ha insegnato però il gusto e il valore della ricerca – e invece ho deciso di stabilirmi qui e ho lavorato nello studio di Renzo Piano proprio quando progettava le novità della Morgan Library”.
Diversa invece è la storia di Stefano Giussani dello Studio Lissoni, moderatore della tavola rotonda. “Abbiamo lavorato per parecchi anni negli USA con biglietti di andata e ritorno da Milano. Poi un anno e mezzo fa la decisione di aprire qui il nostro studio. Ho dovuto imparare tutto del Paese e degli americani: diritto; finanza; pubbliche relazioni. Ho dovuto tradurre il nostro stile in una cultura diversa e ho capito che non basta la creatività e il bello che cerchiamo di portare nei nostri progetti”. Giussani ha raccontato nei dettagli del rapporto con i clienti newyorchesi: “Prima un innamoramento folle, assoluto, inconcepibile nei nostri clienti asiatici e italiani e poi invece la stasi, la necessità di incuriosirlo con un rapporto più personale, informale, fatto magari di inviti a cena e di appuntamenti fuori dal lavoro. La sfida si sta rivelando davvero avvincente”.

a Manahattan, hanno lasciato Milano quando al Salone del Mobile hanno capito che la crisi aveva congelato anche la creatività. Da qui la decisione di una internship in uno studio prestigioso, l’assunzione, quattro anni di lavoro sodo e infine il bivio: tornare o restare?. “Qui avevamo acquisito un modello di lavoro, imparato a capire le figure presenti nei cantieri e nella progettazione, incamerato uno stile e volevamo sperimentarci in qualcosa di nostro”, ha spiegato Virginia. “Abbiamo deciso di far di tutto per restare – ha continuato Francesco – ma non come dipendenti. Volevamo uno studio e quindi è cominciata la trafila burocratica per il visto, con avvocati, ambasciata e tante incongruenze, come quando ad esempio ci veniva chiesto un parco clienti per avere il visto di investitori, ma ci hanno tenuti in sospeso per otto mesi e quindi alcuni clienti li abbiamo di fatto persi perché non potevano aspettare”.

Il visto è infatti uno degli scogli più ardui per chi decide di restare. Ma proprio la capacità di districarsi tra i meandri burocratici e la flessibilità acquisita nell’occuparsi di lavori pubblici sono stati invece la carta vincente di Matteo Milani, che assieme al suo studio milanese ha partecipato al concorso internazionale per la progettazione del nuovo palazzo della regione Lombardia. “Abbiamo vinto assieme allo studio Pei Cobb Freed & Partner, uno dei più antichi di New York e che opera nel settore sin dagli anni ’50. Sono venuto qui per sei mesi e intanto ho concluso il mio dottorato al Politecnico. Vedendo la mia abilità nel destreggiarmi con la Pubblica amministrazione, i miei partner newyorchesi, orgogliosi di poter finalmente costruire qualcosa per l’Italia, mi hanno chiesto di lavorare per loro e restare. E così oggi giro il mondo per i nostri clienti, soprattutto nei luoghi dove la burocrazia è complessa”.
Alle presentazioni è seguito un dialogo vivace e serrato con il pubblico. “Come avete fatto a trovare nuovi clienti?”; “vi sentite ambasciatori dello stile italiano?”; “state formando nuove leve?”: le domande sono state incalzanti e le risposte rispecchiavano le differenti esperienze di ciascuno dei presenti.

“Ho cominciato a frequentare di più la comunità italiana e ad ampliare le mie amicizie. Basta stare solo con architetti che si compiangevano delle tristi sorti dell’inserimento – ha detto Rossana Capurso – Aprirsi, buttarsi nella mischia secondo lo stile americano. Ricordo quando mi hanno chiamato per un grosso progetto. Il mio atelier ero solo io. Quando mi hanno chiesto se avessi uno staff e un’organizzazione ho detto subito di sì e mi sono chiusa in bagno e al telefono ho organizzato il mio team”.
I motivi del successo degli architetti italiani all’estero sembrano chiari a tutti: “Tutta la nostra formazione e tutta la nostra vita è Italia – ha spiegato Virginia Valentini – Camminando per le nostre strade acquisiamo naturalmente un bagaglio culturale di bellezza e quindi lo portiamo con noi dappertutto ma dobbiamo adeguarci ad un contesto”. E’ anche questa l’esperienza di Stefano Giussani che sente la responsabilità di mettere una firma italiana ai suoi progetti ma “viviamo in una città in cui tutto cambia e dove non si può prescindere dalla contaminazione delle culture. Ci hanno chiesto un lavoro in India, per conto di un cliente americano. Useremo la pietra locale nelle strutture ma per gli arredi interni mi affido agli artigiani della Brianza”.
La formazione ad un gusto italiano si nutre anche del rapporto con le istituzioni universitarie statunitensi. “Abbiamo rapporti privilegiati con Yale, Columbia, New York School of Interior Design e tanti studenti vengo a fare internship – ha spiegato Matteo Milani – Si instaura in questo modo un flusso di conoscenze e di formazione reciproca. Ad esempio in Texas sono espertissimi in modellazione 3D, Harvard dà una preparazione teorica molto raffinata. Ci si modella a vicenda. E noi italiani portiamo non solo il gusto, ma la flessibilità, una capacità importante nel nostro lavoro, perché ci consente sempre di far fronte ad imprevisti e novità”.