Il viaggio dei migranti non si conclude nel momento in cui i più fortunati riescono a toccare la terra della nazione in cui cercano rifugio e opportunità. Quell’arrivo è l’inizio di un nuovo viaggio, quello di una nuova vita in terra straniera. È questo il senso dell’accostamento dei due progetti fotografici esposti nella mostra Desperate Crossing, in corso fino al 28 aprile all’Istituto Italiano di Cultura di New York. Le immagini sono quelle del fotogiornalista Paolo Pellegrin, membro della agenzia Magnum, e quelle di Mohamed Keita, giovane fotografo, lui stesso migrante, scappato a soli 14 anni dal suo paese, la Costa d’Avorio, per sopravvivere alla guerra civile che gli ha portato via i genitori.
Da una parte c’è il viaggio, ci sono i barconi, i campi, la paura e la speranza che Paolo Pellegrin ha fissato nelle immagini raccolte in una serie di reportage, uno dei quali pubblicato su The New York Times Magazine nel settembre 2015 con il titolo Desperate Crossing, appunto. Dall’altra parte c’è Roma, punto di arrivo o di passaggio per molti migranti che nella capitale italiana cercano di ritagliarsi uno spazio, che spesso diventa uno spazio di emarginazione e disumanità. Mohamed Keita ha affrontato un viaggio di oltre tre anni nel continente africano, prima di imbarcarsi verso l’Italia dove, approdato sulle coste siciliane, ha raggiunto Roma e per quattro mesi ha dormito nella Stazione Termini.
“La mostra nasce perché ho visto sul New York Times questo straordinario reportage di Marco Pellegrin – ci racconta Giorgio van Straten, direttore dell’Istituto di Cultura – E allora ho chiesto al mio collega di Londra, Marco Delogu, lui stesso fotografo, di fare una mostra sui migranti. Anche perché è un tema che mi sembra abbia colpito molto l’opinione pubblica, anche in America. Delogu mi ha proposto di mettere insieme le foto di Pellegrin, che documentano il viaggio, con quelle di questo giovane immigrato arrivato nel modo in cui Pellegrin ci fa vedere. Keita racconta un’altra odissea dei migranti quella dell’impatto del paese in cui arrivano. Le sue foto tracciano un percorso dentro Roma con tutti i problemi che un migrante deve affrontare arrivando in una nostra città”.

Due sguardi diversi e complementari che, insieme, raccontano un’epopea di disperata ricerca. Se nelle fotografie di Pellegrin c’è tutta la forza cruda della testimonianza diretta, in quelle di Keita c’è un lirismo del non detto, di vite mostrate per frammenti.
“Nel primo c’è una volontà di documentazione – continua van Straten – Il primo è un giornalista che cerca di raccontare. Dall’altra parte c’è una persona che si è reinventata in questo ruolo di fotografo e che guarda con curiosità e un misto di attrazione e paura il posto in cui è arrivato”.
Nelle foto di Keita si colgono segnali di un paese, l’Italia, in cui l’identità nazionale e la storia si incontrano e scontrano con un nuovo, uno “straniero”, che non sempre si sa dove e come accogliere e integrare. Ma Desperate Crossing non è una storia italiana né di uno specifico popolo: “Per questo abbiamo deciso di esporre le fotografie senza didascalie – riprende il direttore dell’Istituto di Cultura – Si doveva avere il senso che questo è un viaggio universale: che sia Grecia, Turchia, Italia, non cambia, il viaggio è quello e in quelle condizioni, sempre accompagnati da un senso di disperazione”.

In un’America che si avvia verso le presidenziali con un candidato come Donald Trump che parla di muri e di espulsioni, riflettere sull’universalità di un viaggio che riguarda tutto l’occidente è una necessità. “Non credo si possano dare ammaestramenti, né in un senso né in un altro. Qualche volta nei giornali americani ho notato un eccesso di ‘vi spieghiamo noi’. Ma se è vero che l’Europa ha mostrato tutti i suoi limiti politici e culturali nell’affrontare il fenomeno, è anche vero che qui in America non c’è una situazione paragonabile. L’insegnamento, se ci deve essere, è che questa cosa sta succedendo e pensare che uno possa limitarsi a impedirla non è solo sbagliato ma inattuabile. Muri e campi non sono soluzioni”.
Con questa mostra, la cultura italiana parla del presente, dimostrando di essere in grado diuscire dalla torre d’avorio, per raccontare le complessità dell’oggi. “Credo – conclude van Straten – che un istituto di cultura debba raccontare Dante e insieme quello che succede oggi, sempre attraverso gli strumenti della cultura e l’occhio di persone di cultura, attraverso un pensiero artistico in senso lato. Penso che la cultura si sia sempre anche occupata dell’oggi. Ci sono dei momenti in cui la cultura è più sicura di sé nell’affrontare la realtà e momenti in cui è più spaesata, è tutto meno chiaro e confuso, è più difficile prendere posizione. Questo è uno di quei momenti e in questi momenti anche solo farsi delle domande, interrogarsi su quello che succede, anche quando non si hanno risposte, è di per sé una funzione fondamentale. A chi pensa di avere tutte le ricette pronte, anche solo un volto di una delle persone ritratte in queste foto, dovrebbe far riflettere”.