Va bene lo skyline, i grattacieli di Midtown, il lusso dell’Upper East Side o le banche di Wall Street ma, senza ombra di dubbio, i quartieri più amati dai newyorchesi sono quelli senza una destinazione particolare. Parliamo della New York autentica, di quelle realtà stratificate come il Greenwich Village, Chelsea, Bowery e il Lower East Side, ancora ricche di architetture curiose, negozi particolari, bar affascinanti e soprattutto strati di storia sociale americana sovrapposti proprio in quelle stradine. Sono ancora oggi questi i quartieri più autentici che già cinquant'anni fa erano sotto la lente analitica di Jane Jacobs, nella sua doppia veste di sociologa urbana e community organizer, impegnata a promuovere politiche urbane volte a favorire la conservazione di un habitat “a misura d'uomo”.
Il concetto di autenticità è fondamentale oggi nell’analisi dell’inarrestabile processo di gentrification che ormai negli ultimi decenni sta dilagando in molte zone di New York. L’esempio più illustre al momento è quello di Williamsburg, che da distretto industriale conobbe già una prima trasformazione quando i depositi vennero dismessi e gli artisti squattrinati iniziarono ad usarli come studi, fino a quando, con un piano urbanistico degli ultimi anni, circa 200 blocks vennero concessi allo sviluppo residenziale. Fu questa decisione a dare il via libera alla costruzione di centinaia di nuovi edifici e alla riqualificazione di tutte quelle fabbriche dismesse costruite con i caratteristici mattoni, che proprio grazie alla loro autenticità hanno fatto transitare il quartiere dal grigiume della spoglia architettura industriale alla riscoperta della creative class che vi si è insediata. Tutto ciò seguito dalle inevitabili conseguenze per i “nativi”, presto costretti a trasferirsi in altre parti della città a causa dell'aumento degli affitti e della crescente estraneità nei confronti della nuova (superimposta) realtà del quartiere.
In sostanza, deduciamo che questa ricerca di autenticità contribuirebbe all'incremento del valore immobiliare e possiamo quindi attribuire ad essa il ruolo di potente vettore di ridefinizione sociale che si realizza attraverso il mutamento della composizione demografico-economica di svariate zone della città contemporanea. Ecco che a questo punto ci troviamo però di fronte ad un ineludibile paradosso: le zone definite autentiche per caratteristiche urbane, storia e, soprattutto, composizione sociale, divengono oggetto di interesse per una platea di residenti a più alto reddito e così si innesca un perverso meccanismo capace, in pochissimo tempo, di far schizzare alle stelle i valori di quelle aree e, così, gran parte di quell’autentico tessuto sociale ed economico che le caratterizzava sarà costretto a spostarsi altrove rimpiazzato dai nuovi e più facoltosi residenti.
La Jacobs descriveva nei suoi studi, basati sempre su osservazioni incredibilmente meticolose, come la vita delle città fosse il prodotto di una serie di interazioni sociali difficili da programmare. I migliori architetti avrebbero anche potuto progettare interi quartieri ben più funzionali e moderni, ma non sempre sarebbero stati in grado di ricreare un tessuto sociale minimamente paragonabile. Solo semmai facendo un passo indietro e ridando la possibilità di interagire a diverse tipologie e classi sociali, si potrebbe auspicare a quella varietà sociale di cui la Jacobs ha spesso parlato.
La città, ci si è resi conto, dovrebbe essere in grado di sostenere un mix di redditi. Per questo motivo l’attuale sindaco di New York, Bill de Blasio, ha svelato una parte del suo ambizioso piano per la Grande Mela – la proposta cioè introdurre regole per l’uso del territorio con l’obiettivo di stimolare la creazione di grandi quantità di alloggi a prezzi accessibili in uno svariato numero di quartieri, a partire dai più centrali. Utilizzando una tattica per la quale, anche se i quartieri vengono ridenominati da nuovi piani urbanistici, i costruttori che vogliono investire in quelle zone, devono assicurare che almeno il 25/30 per cento di nuovi appartamenti sia predisposto per i cittadini con reddito basso o moderato. De Blasio immagina la costruzione di ottantamila nuovi appartamenti a prezzi accessibili per i prossimi dieci anni e questa proposta si basa principalmente su un unico strumento: zonizzazione inclusiva obbligatoria. L'idea è cioè di incorporare una certa percentuale di unità a basso reddito nei nuovi edifici residenziali. Queste unità possono essere affittate o vendute, a patto che siano destinate a famiglie con specifiche fasce di reddito.
Non vi è dubbio che New York abbia bisogno di un ampliamento radicale di alloggi a prezzi sociali soprattutto se si considera che tra il 2000 e il 2012 gli affitti sono aumentati molto più velocemente dei salari. Questo ha un peso rilevante in una città dove quasi il 70 per cento dei residenti è affittuario ed è pertanto inaccettabile che un terzo di questi spenda più della metà del proprio reddito per pagare il proprio alloggio. “Questo piano – ha affermato il sindaco – creerà opportunità per tante persone che sarebbero altrimenti costrette a lasciare la nostra città. Genererà convenienza nel bel mezzo di quella che è stata la più grande crisi di accessibilità che questa città abbia mai conosciuto”.
Nonostante le frasi propagandistiche indiscutibilmente condivisibili, non tutte le perplessità possono essere così facilmente dipanate. La proposta del sindaco continua a palesare un grande punto interrogativo nella gestione dei servizi: sebbene sia la Jacobs cinquant’anni fa che De Blasio oggi abbiano avuto come obiettivo la diversificazione sociale all’interno dei quartieri, è inevitabile che la ricchezza di una percentuale (per quanto ridotta) della popolazione, li renda praticamente invivibili per i meno abbienti, che nonostante il pregio di condividere le mura con i più fortunati, non potranno sostenere quello stile di vita che il quartiere offrirà.