Agli inizi degli anni ’30, epoca in cui lo sport inizia ad affermarsi come pratica comune, largamente diffusa sull’una e sull’altra sponda dell’Atlantico, si registrò il primo, significativo, impulso per l’architettura sportiva attraverso la sperimentazione di nuove forme che diedero luogo ad esiti contrapposti.
“Giunto al nono piano l’ascensore spalanca le sue porte su una scena bizzarra in cui statuari pugili nudi si ritrovano al bancone di un bar intenti a gustare delle ostriche mentre rivolgono lo sguardo oltre le finestre giù verso l’Hudson River”.
Sono molte le immagini surreali tratteggiate da Rem Koolhaas in Delirious New York, ma questa è senza dubbio tra le più stravaganti. L’architetto olandese ricorre a questa per raccontare l’importanza di un edificio insolito, poco noto, ma senza dubbio ricco di interesse, ovvero il Down Town Athletic Club. Del resto era ormai diffusa la convinzione che lo sport fosse la stregua di una moderna saga mitologica e non a caso nel mondo furono diversi i templi ad esso consacrati.

Il Down Town Athletic Club
Dando seguito ad una serie di luoghi comuni si potrebbe affermare che Roma e New York siano due città, anzi due riproduzioni urbane della realtà, poste agli antipodi. La prima vista come città antica, statica ed orizzontale, mentre l’altra come esaltazione della dinamica modernità verticale del XX secolo. Si tratta di semplificazioni spesso grossolane, ma comunque veritiere e assolutamente calzanti se si parla di luoghi per lo sport.
Il New York Down Town Athletic Club fu eretto nel 1931, in un lotto piuttosto limitato al 20 West Street, nella zona di Lower Manhattan. Fu progettato dagli architetti Starrett & Van Vleck all’epoca piuttosto conosciuti in città per aver firmato alcuni importanti department store. L’edificio, sebbene si tratti di un raffinato esempio di Art Deco, impreziosito da splendidi particolari decorativi, passerebbe probabilmente inosservato se non se ne ammirasse increduli la struttura e l’approccio rivoluzionario che lo ispirarono e che lo resero una sorta di feticcio della modernità che Koolhaas ha in seguito celebrato. In effetti costruire una torre di trentadue piani dove impilare, l’uno sopra l’altro, tutta una serie di impianti sportivi differenti era un azzardo ingegneristico per l’epoca. Tale soluzione avrebbe consentito però ad un socio di cimentarsi ad un piano con lo squash, a quello superiore con la palla a mano quindi salire ancora un piano per giocare a biliardo, mentre qualcun altro avrebbe scelto di allenarsi correndo, giocando a tennis o nuotando nella piscina del dodicesimo piano. Ogni volta che si aprivano le porte dell’ascensore ci si trovava di fronte una differente disciplina sportiva e uno spazio perfettamente attrezzato per praticarla. Era possibile persino giocare a golf al settimo piano praticando il proprio swing non in un asettico stanzone quanto piuttosto giocando letteralmente in un angolo “di un paesaggio inglese fatto di valli e colline, un fiumiciattolo, alberi (!) e persino un ponte”.

La punta della torre di 32 piani del Down Town Athletic Club
Un artificioso e variegato condensatore di attività ginniche la cui concezione potrebbe oggi apparire quasi banale, ma che, contestualizzata in quell’epoca, si può definire assolutamente rivoluzionaria: per la prima volta la natura di un luogo viene moltiplicata verso l’alto ed ogni livello viene plasmato per ricreare “in vitro” ambienti per la pratica sportiva. Ci troviamo di fronte una imprevedibile sommatoria di funzioni tra loro inconciliabili che, di fatto, anticipa quello che sarà l’edificio-città del XX secolo. Seppur inconsapevolmente, questi trentaquattro piani racchiudevano le risposte architettoniche a quella eterogenea quantità di bisogni che la modernità stava cercando.
In quegli stessi anni, anche nella Roma fascista lo sport era divenuto un aspetto irrinunciabile della vita quotidiana, anzi rappresentava per il regime una strategica attività educativa attraverso la quale poter allenare i “nuovi” italiani. L’ambiente culturale nel quale ci si muoveva era ben diverso, la modernità era qui guardata con sospetto e ritenuta portatrice di valori destabilizzanti mentre i modelli erano quelli, ben più familiari e rassicuranti, del passato classico. Fu dunque in questo contesto che iniziò la costruzione di uno dei più significativi capolavori dell’architettura littoria: il Foro Mussolini.

Il Foro Italico (Foto: Flavia Rossi)
Oggi che una sufficiente distanza storica ci separa da quegli anni possiamo finalmente valutare la bellezza e la straordinarietà di quest’opera assolutamente emblematica anche e soprattutto se paragonata al contemporaneo, modernissimo, grattacielo sportivo newyorchese.
Il suo progettista principale, il carrarese Enrico Del Debbio, si dimostrò da subito irremovibile nel pretendere che il complesso sorgesse alle pendici di Monte Mario in una paludosa zona non lontana da Ponte Milvio. Il suo intento era chiaro: proprio la depressione altimetrica di quest’area avrebbe plasmato il progetto con una costruzione degli impianti alla “maniera greca”, ovvero incassati nel terreno e senza spalti in elevazione. Una tale sistemazione consentiva anche l’ulteriore possibilità di integrare completamente il progetto con la natura circostante creando un equilibrio delicatissimo tra architettura e ambiente, accentuato anche dalla scelta di citare un impianto di tipo antico in cui fosse il paesaggio a generare gli assi prospettici piuttosto che l’inverso.

Il Foro Italico (Foto: Flavia Rossi)
Questi aspetti, assolutamente determinanti, sono stati sfortunatamente ignorati dalla superficialità di molti interventi che, negli anni, sono stati fatti in questo luogo compromettendone l’integrità originaria pur non riuscendo (ancora) a cancellarne l’unicità. Il progetto di Del Debbio prevedeva di sistemare, uno accanto all’altro, in una vastissima area, l’Accademia di Educazione Fisica, il Palazzo delle Terme, lo Stadio dei Marmi, lo Stadio dei Cipressi (poi Olimpico) e gli impianti del tennis e del nuoto, oltre ad altri edifici.
La contrapposizione tra due visioni architettoniche antitetiche è ora evidente. Se sulla riva dell’Hudson assistiamo alla trasformazione di un piccolo isolato urbano in un silos di attività sportive, lungo il Tevere la natura incornicia i fregi e le statue di marmo come insegnano gli antichi stadi ellenici. Ma se la genesi dei due edifici ci spiega il perché di queste differenze, la loro sorte ci dimostra invece quanto, talvolta, il destino possa essere beffardo. Il Foro di Del Debbio, nel frattempo ribattezzato Italico, anche grazie alla sua natura “antica” è sopravvissuto al regime che lo aveva commissionato, nonché agli scempi più recenti e tutt’oggi affascina i cittadini e i visitatori con i suoi spazi monumentali e i suoi marmi. Al contrario il Down Town Athletic Club è stato vittima dello stesso dinamismo urbano che lo aveva generato: all’indomani dei tragici attacchi del 11 settembre il club, che sorgeva a pochi metri dal World Trade Center, rimase per mesi chiuso e, inevitabilmente, dichiarò bancarotta nel 2002. Il dinamismo immobiliare di New York ha poi fatto il resto. Quelli che erano trentadue piani per lo sport furono trasformati, in banali appartamenti, sacrificandone il passato per un più remunerativo presente metaforicamente post-moderno.