“Heil Hitler!” L’uomo in divisa è sulla soglia di casa con il braccio teso. I suoi pantaloni sono a mezz’asta… La bambina è nascosta dietro la porta. Le sedie sono appese al muro… Tutto finisce sottosopra, la casa non è più casa, non è più rifugio: LA VITA E’ STATA VIOLATA. Niente sarà più come prima.
Una vita vera in una piccola scatola di legno, 8 x 12 inc., animata da minuscoli giocattoli autentici perché la bambina della foto è esistita, è stata deportata dai nazisti e fortunatamente non è morta in un campo di concentramento, ma di vecchiaia. Dwora Fried, l’artista americana di origini ebreo-viennesi, ricorda così la madre Gisa scomparsa di recente dopo una lunga malattia, che tuttavia le ha fatto ritrovare quello che aveva perduto: la sua bambola. Un’infanzia negata quella di Gisa e poi nascosta per tutta la vita nella cantina dell’inconscio dove riponiamo le sofferenze insopportabili come segreti indicibili.
L’Alzheimer, abbassando le difese del conscio, ha aperto la porta dell’inconscio facendo risalire alla memoria i sogni negati, come il poter avere una bambola. E la figlia Dwora si è messa alla ricerca, per i mercatini del mondo, di piccole bambole e minuscoli oggetti anni ’30 -‘ 40 con cui avrebbe potuto giocare la madre. Con essi ha arredato le storie di vita racchiuse nei suoi BOXES che io per questo chiamerei “box vitae”, perché la vita non è un curriculum. La vita contiene, traccia un segno che segna e trasforma anche chi non l’ha vissuta ma ereditata. Mi è capitato in questi giorni tra le mani Metagenealogia – La famiglia, un tesoro e un tranello (Feltrinelli), un saggio di Alejandro Jodorowsky, guarda caso anche lui di origini ebraiche, che ha ideato un metodo di analisi della propria genealogia per comprendere fino a che punto quello che si pensa, si sente, si desidera e si vive possa essere rintracciato dentro un passato familiare. “La famiglia – scrive – è il nostro forziere del tesoro, ma anche la nostra trappola mortale”.
In questi racconti in scatola “Vienna – Los Angeles – Venice” – piccole grandi opere visibili fino al 15 settembre al museo ebraico di Venezia nel ghetto nuovo, poi a Los Angeles, dove l’autrice vive, e sempre sul sito www.dworafried.com – i ricordi familiari si rivelano una trappola dorata per chi li ha vissuti dove tutto sembrava in ordine ma niente era davvero a posto. Forse perché poteva esser modificato da un momento all’altro dall’imprevedibilità della vita.
La piccola Dwora sorride felice distesa sul lettino gonfiabile tra mamma e papà. Ma stanno galleggiando tra due canali di Venezia e l’acqua è scura come il petrolio. Le chiedo cosa significhi, benché lei mi abbia detto che ognuno deve spiegarsi la rappresentazione come la percepisce.
“Da piccola non mi sentivo mai protetta con i miei genitori – mi racconta Dwora Fried – e avevo paura di rimanere sola a casa con la terribile istitutrice austriaca vestita con un grembiule bianco e la crestina inamidata sulla testa. Avevo la sensazione costante che tutto fosse a rovescio. Mi sentivo instabile come sull’acqua e temevo che qualcosa di terribile potesse succedere da un momento all’altro”.
Ho conosciuto Dwora negli anni ’60 a Lignano Pineta, da bambina: lei era già adolescente e la sua bella casa al mare era un porto di mare, nel senso che tutti erano ben accetti, ed era un approdo sicuro, perché ci si poteva andare senza avvisare. Lì – ero certa – s’inventava la vita: i suoi amici suonavano la chitarra, cantavano, parlavano, amoreggiavano. Era un micro mondo dove si riuniva una gioventù internazionale ed io e sua sorella Romy spiavamo e aspettavamo di crescere ed essere iniziate alla vita. Poi Dwora è andata a studiare all’Università di Tel Aviv, si è innamorata e sposata là e la casa del mare è rimasta vuota. Nel 1978 si è trasferita con la famiglia a Los Angeles. Alcuni anni dopo suo padre Teddy è morto e la casa del mare è stata venduta. Eppure Dwora è ritornata ogni estate a Lignano con i suoi bambini e la sua compagna Gigi. Deve aver infine scoperto che la casa non è un edificio, ma è dove stai bene e ti vogliono bene. Infatti i suoi box sono mobili, si appoggiano dove si vuole, alcuni oggettini essendo appesi si muovono o possono essere spostati. “Qualche volta – spiega – prendo un vecchio box che non mi piace più, tolgo tutto quello che c’è e comincio a farne uno nuovo”.
“Ma quanto impieghi per fare un box?”
“Due o tre giorni ma anche due o tre mesi e non mi accorgo che le ore passano ed è notte fonda”.
In una decina d’anni Dwora ha realizzato circa 150 box: alcuni seguono solo una sensazione, come quelli dedicati a Marylin Monroe o a Audrey Hepburn, altri come quelli della mostra in corso a Venezia sono autobiografici, altri ancora raccontano di amici, parenti, fatti accaduti. Ma tutti sono onirici, nel senso che il confine tra realtà e immaginazione è confuso, perché nella vita come nella fantasia non ci sono frontiere.
La mamma e la figlia sorridono felici ma sono chiuse in un recinto. Nella casa anni ‘60 non manca niente: la tv, la domestica ed è arrivata in visita una vicina molto elegante. Non è una bella vita?
La mamma passeggia con la bambina sul prato, ma fuori di casa c’è un grande gallo e tutt’intorno un reticolato. E’ una prigione?
L’erba del vicino è sempre più verde. Figurarsi se ci stanno pure le fragole. Un maialino vorrebbe mangiarsele. Un prete insidia un bambino in un angolo… Intanto i signori Fried ballano e sorridono dall’oblò.
Ci sono tutte le scarpe che vuoi all’inizio del bosco. Le sorelle posano sorridendo soddisfatte. Non sanno che oltre c’è il lager.
Il cielo è solo un soffitto dal quale pende una lampada. Non c’è altra illuminazione? La strada corre verso l’orizzonte, la donna bionda cade dalla Vespa e il suo bambino vola via. “La donna è lì sola – spiega Dwora – in un posto molto pericoloso e nessuno l’aiuta. Anche quando c’era mio marito mi sentivo sola…”
Bisogna vederle dal vivo queste scatoline, per poter ammirare l’accuratezza dei dettagli. Dalle foto si potrebbe essere ingannati: non sono case di bambola, ma opere simboliche dal messaggio iconografico spesso scioccante, accompagnato talvolta da frasi sarcastiche, come: “Se tu avessi potuto vedere con i miei occhi, non ti sarebbe sembrata brutta come una scimmia…”.
Altre volte però il messaggio è soltanto ironico, come il papà che fabbrica i soldi o le signore dal viso di porcellana che non sanno di avere in testa il galleggiante dello scarico del water. “Perché in fondo – dice Dwora – non bisogna prendere se stessi troppo seriamente”.
Questo articolo esce anche su Oggi7-America Oggi