La Cadillac Miller Meteor, usata sia come ambulanza sia per il trasporto dei cadaveri, nel cui parabrezza viene proiettato un video relativo alla situazione artistica americana
Cinquantacinque artisti, cinque piani di esposizione, due curatori e di questi, un’anima italiana. Si presenta così l’edizione 2010 della Biennale d’arte del Whitney Museum di New York, curata per la prima volta dal fiorentino Francesco Bonami in collaborazione con il giovane americano Gary Carrion-Muraryari. Curatore della Biennale d’Arte di Venezia nel 2003, oltre che “senior curator” del Museo di Arte Contemporanea di Chicago (MCA) tra il 2004 e il 2008, Bonami ha presentato la “sua creazione” in un’efficace lettura, tra arte e cultura, che ha svolto mercoledì pomeriggio all’Istituto Italiano di Cultura di New York di Park Avenue.
Inaugurata il 25 febbraio scorso, la rassegna, considerata uno degli eventi più importanti d’America per l’arte contemporanea, celebra quest’anno la sua settantacinquesima edizione. Inserita negli spazi del Whitney Museum of American Art (945 Madison Avenue e 75esima strada) chiuderà al pubblico il 30 maggio prossimo. “E’ una Biennale volutamente ‘ridotta’ e più intima quella di quest’anno – ha spiegato Bonami – con la metà degli artisti rispetto all’edizione del 2006 e spazi limitati solo ed esclusivamente al museo disegnato da Marcel Breuer” (l’edizione precedente aveva visto alcune installazioni sconfinare anche al Park Avenue Armory). Una scelta diversa rispetto al passato perché, secondo Bonami, “i tempi cambiano e con loro le persone, le situazioni, i modi di pensare e anche il linguaggio dell’arte”.
Cinquantacinque artisti americani o attivi negli Stati Uniti, affermati e giovani emergenti, impegnati ciascuno in una personale rappresentazione dell’arte e dell’America attraverso le forme espressive più differenti: pittura, scultura, video, fotografia, performance video ed installazioni. Tra gli artisti, per la prima volta quest’anno, la presenza femminile supera quella maschile per un totale di 29 donne e 26 uomini. La rassegna “2010”, diversamente da ogni altra esposizione Biennale disposta spesso a lasciarsi influenzare dalla situazione politica, culturale e sociale del momento, mette insieme opere d’arte capaci di rappresentare realmente uno spaccato della produzione artistica contemporanea, piuttosto che un tema specifico.
Ad un primo colpo d’occhio molti dei lavori esposti a “Biennale 2010” possono apparire profondamente personali e riconducibili a semplici gesti o ad azioni quotidiane che potrebbero sembrare lontane dall’interpretare un senso di comune responsabilità sociale. Tuttavia molti degli artisti hanno volutamente realizzato spazi per performance che sono contemporaneamente luoghi dove poter incontrare i visitatori. E’ anche questo uno dei modi per costruire la collettività in un momento storico tutto nuovo. Molti anche gli artisti che invece guardano indietro, in particolare all’astrazione, come un modo per creare un personale linguaggio sperimentale con cui comunicare a chi guarda ma anche al mondo stesso.
L’esposizione si articola su cinque piani dove il quinto rappresenta una sorta di “ponte” tra passato e presente. Qui infatti sono esposte una serie di opere acquisite ed esposte durante le passate edizioni della biennale con nomi come Marc Rothko, Robert Gober, Richrad Prince, Basrbara Kruger, Jackson Pollock.
A mano a mano che si scende di piano si entra sempre più in quello che è “Biennial 2010” uno spaccato del nostro presente, come vuole significare lo stesso titolo – “non titolo” della mostra, per il quale i curatori hanno scelto semplicemente il titolo “2010”.
Tra le opere più curiose, al quarto piano, la Cadillac Miller Meteor, simbolo americano per eccellenza, usata sia come ambulanza sia per il trasporto dei cadaveri, nel cui parabrezza viene proiettato un video relativo alla situazione artistica americana. Il terzo piano si apre invece con un’opera di Pae White, “Smoke knows”, un grande arazzo di cotone e poliestere che sembra andare lentamente in fumo. Curiosa anche l’interpretazione di Jessica Jackson Hutchins in “Couch for a long time” un divano composto di giornali che accolgono notizie inerenti Obama, che riflette sulla realtà quotidiana su cui a volte ci si adagia inconsapevoli. In Biennial 2010, tante anche le performance, film e video molte delle quali prestano grande attenzione al corpo e al suo linguaggio. Tra queste anche l’opera di Kelly Nipper che usa la coreografia di corpi per modellare le sue idee presentate con un video in cui l’attrice indossa una maschera, così come quella dell’artista Rashaad Newsome che mette in video un tipo di danza gay definita vogue, famosa negli anni 60 e 70.
L’immagine del corpo, torna frequentemente nelle opere di questi artisti e lo fa anche nella concezione più dolorosa, cioè segnato dalla violenza fisica, spirituale, sociale, portando le cicatrici della guerra, della discriminazione, dell’odio. Intime prospettive che richiamano l’attenzione sulle grandi questioni politiche e sociali e anche se appaiono crude, non vogliono essere l’immagine della disperazione o del cinismo, ma una sorta di forma di rigenerazione. Tra le opere più forti in questo senso emerge il lavoro di Nina Berman che al secondo piano espone una serie di immagini fotografiche che ritraggono Ty Ziegel, ex agente della marina, sfigurato da una bomba in Iraq ripreso per una settimana nella sua vita di coppia che lo condurrà al matrimonio con la sua ex compagna di scuola.
“Molti mi chiedono se anche questa è arte, ha commentato Bonami, e io non posso che rispondere, sì. L’intenzione di questa esposizione, non è quella di colpire come potrebbe fare una qualsiasi pubblicità della ‘United Colors of Benetton’, ma è quella di mostrare le cose che succedono, belle o brutte che siano. La mostra è come un giornale, come la televisione, un’apertura sulla realtà e la vita di ogni giorno”.