Arriva nelle sale italiane il 9 luglio e due giorni dopo, l’11 luglio, negli Stati Uniti, distribuito da Warner Bros. Pictures. Ma più che un evento cinematografico, questo nuovo Superman firmato da James Gunn sembra il tentativo di far decollare un intero universo narrativo mentre ancora si è con i piedi nel caos.
In un momento in cui l’industria dei blockbuster sembra incapace di distinguere tra la nostalgia e la nevrosi, Gunn sceglie di far atterrare un Superman che ha poco a che fare con l’epica del passato. Quello che vediamo sullo schermo – con il volto rassicurante e vagamente spaesato di David Corenswet – è un alieno goffo, un eroe dalle buone maniere e dalle crisi d’identità, il protagonista di un film che è insieme B-movie psichedelico, satira mancata e manifesto d’amore per i fumetti più assurdi della Golden Age.
Gunn, regista e co-CEO del rinato DC Studios, non racconta l’origine di Superman – niente razzi da Krypton, niente campi di grano nel Kansas, niente trauma fondativo. Il suo Kal-El è già in volo, già famoso, già fidanzato con Lois Lane, già incastrato nel caos geopolitico del XXI secolo.

Il film comincia nel mezzo di una guerra fra due paesi immaginari, Boravia e Jarhanpur. Ma la finzione è solo apparente. Boravia è una chiara allusione alla Russia di Vladimir Putin: un paese invasore, retto da un regime autoritario, impegnato in un’operazione militare che maschera come “liberazione”. Jarhanpur, invece, richiama l’Ucraina di Volodymyr Zelensky: uno stato più piccolo, aggredito, descritto come vittima innocente, bisognoso di aiuto internazionale. Superman entra nel conflitto a fianco di Jarhanpur, ma ne esce sconfitto, messo in crisi da un super-soldato (forse manipolato da Lex Luthor) che lo riduce in condizioni umilianti. È l’unico a intervenire: né la NATO, né le Nazioni Unite, solo Superman. L’allusione è trasparente.
E da lì si apre un ventaglio narrativo talmente vasto e compulsivo da sembrare la fantasia di un ragazzino chiuso per ore in un negozio di fumetti senza supervisione: robot aiutanti con il mantello, cani volanti, occhiali ipnotici, universi tascabili, scimmie che diffondono propaganda online, demoni verdi, e una danza irlandese vampiresca che, per fortuna, esiste solo in un altro film.

Gunn sembra sapere che sta giocando con qualcosa di troppo serio per essere preso sul serio, e allora esagera. Il suo Superman è come una lunga sessione di cosplay affettuoso, una celebrazione sfrenata e caotica di tutto ciò che è stato marginale e cartoonesco nei fumetti DC.
Eppure, nel mezzo di questa sarabanda cromatica e narrativa, ci sono momenti che lasciano il segno. Rachel Brosnahan è una Lois Lane magnetica e cinica, capace di interrogare il proprio amante come se fosse un criminale di guerra.
Superman non vuole essere né una parodia né un dramma, ma una fusione instabile, tra l’assurdo infantile e il sottotesto politico. Luthor (un Nicholas Hoult che sembra uscito da una versione cattiva di The Office) è un miliardario paranoico e antieroe del populismo digitale: accusa Superman di manipolare l’umanità, lo definisce una minaccia morale, e fa di tutto per screditarlo sui social. È il villain perfetto per il 2025.
Nel frattempo, sullo sfondo c’è un’America stanca, disillusa, che non sa più a chi credere. Un Paese ferito dalla disinformazione, dalla polarizzazione, dalla perdita di fiducia nel potere come servizio. È un’America che guarda a Superman con sospetto più che con speranza. E questo forse è il messaggio più autentico del film, anche se confuso: non è più l’eroe a essere cambiato, è il mondo intorno a lui a non riconoscerlo più.