«I giovani credono che il mondo cominci con loro, e finisca con loro. È questo il loro splendore, ed è questo il loro dramma.»
— Pier Paolo Pasolini
Nel corso del Novecento, la cultura americana ha prodotto una lunga teoria di figure letterarie, artistiche e cinematografiche in cui si sono specchiate le inquietudini della giovinezza moderna: una giovinezza privata di certezze, attraversata da un senso di perdita e marginalità, spesso sospesa tra nostalgia e rifiuto. La lost generation, la beat generation, l’adolescente Holden Caulfield, i quadri silenziosi di Edward Hopper, i versi rarefatti di Mark Strand, ma anche il cinema esistenziale di Terrence Malick, quello lirico e angosciato di Sofia Coppola, il nichilismo inquieto di Harmony Korine: ciascuno di questi universi contribuisce a comporre un atlante emotivo dell’America che ha perso la propria bussola morale ed esistenziale.
Coniata da Gertrude Stein e resa celebre da Ernest Hemingway, l’espressione lost generation designava i reduci della Prima guerra mondiale che, al loro ritorno in patria, si scoprirono estranei a un mondo che non riconoscevano più. Nei romanzi di Hemingway — da Fiesta ad Addio alle armi — il trauma bellico si traduce in una narrativa dell’erranza, del cinismo, della ricerca del piacere immediato come surrogato di senso. I protagonisti vagano per l’Europa senza meta né fede, consumati da un disincanto che è anche estetico: la scrittura scarna, essenziale, spogliata di sentimentalismi, mima l’anestesia morale che li domina.
Alcuni decenni più tardi, la beat generation avrebbe ripreso il tema dello smarrimento, ma con modalità radicalmente differenti. Se la lost generation è passiva e disillusa, i beat si muovono per reazione. La loro scrittura si fa strumento di rifiuto e trasgressione: è flusso, allucinazione, viaggio psichedelico e mistico. In On the Road (1957), Jack Kerouac trasforma il romanzo in una partitura jazzistica, nomade, aperta, che attraversa l’America in cerca di una libertà sempre rinviata. Alla solitudine esistenziale di Jake Barnes si oppone la solitudine elettrica di Dean Moriarty, mitologizzato come “pazzo santo del nulla”, affamato di esperienza.
Ma al centro di questa parabola letteraria e generazionale si staglia una figura solitaria e apparentemente marginale: Holden Caulfield, adolescente newyorkese inventato da J.D. Salinger. Pubblicato nel 1951, The Catcher in the Rye è uno dei romanzi più controversi e letti della letteratura americana. Holden non ha subito guerre, non partecipa a movimenti artistici: è un individuo che semplicemente rifiuta. Il suo disgusto verso la “phoniness” — l’inautenticità diffusa del mondo adulto — lo pone in una posizione radicale ma priva di progettualità. È una ribellione senza ideologia, una fuga ininterrotta. Se Jake Barnes si rifugiava nel silenzio e Moriarty nell’eccesso, Holden si rifugia nel paradosso: vuole proteggere l’infanzia, ma è già condannato a perderla.
In questo contesto di disagio esistenziale, assume un ruolo centrale anche l’arte visiva.
La malinconia americana: Hopper, Strand e il volto poetico dell’attesa
“La malinconia è la felicità di essere tristi.” — Victor Hugo
Nel grande affresco dell’immaginario culturale americano, c’è un sentimento che ritorna con costanza e delicatezza: la malinconia. Una malinconia fatta di silenzi, di spazi vuoti, di luci oblique che tagliano stanze deserte. La ritroviamo nei quadri di Edward Hopper, dove l’America appare immobile, assorta, in attesa. Ma la ritroviamo anche, con la stessa intensità, nella poesia di Mark Strand, dove l’assenza diventa sostanza, la solitudine diventa forma.
Strand, canadese di nascita ma americano per formazione e destino, è stato una delle voci più limpide e misteriose della poesia del secondo Novecento. La sua scrittura si muove tra i paesaggi interiori della perdita e quelli sterminati dell’America rurale e suburbana. I suoi versi sembrano spesso fluttuare tra il sogno e la veglia, tra la concretezza dell’oggetto e l’astrazione dell’emozione. “In un campo / io sono l’assenza / del campo,” scriveva. E con quel verso, semplice e abissale, dava voce a una condizione esistenziale prima ancora che poetica.
Nel volume “Tutte le poesie” (Lo Specchio Mondadori), curato da Damiano Abeni e Moira Egan, emerge la parabola di un autore che ha saputo rendere l’invisibile qualcosa di necessario, quasi tangibile. Con un minimalismo meditativo e una compostezza formale disarmante, Strand ci parla di ciò che manca, e di come ciò che manca definisca il reale. Non è un caso che proprio la nozione di “vuoto” sia il cuore della sua poetica: l’assenza, per lui, non è una mancanza ma una soglia, un varco da cui guardare il mondo con occhi più lucidi.
Come Hopper dipinge personaggi bloccati in un tempo senza azione, così Strand scolpisce parole in uno spazio sospeso, dove ogni elemento — una finestra, un campo, un’ombra — diventa portatore di attesa, di memoria, di smarrimento. Le sue poesie raccontano un’America senza clamore, abitata da fantasmi quotidiani, da presenze a metà. Eppure, da questa marginalità silenziosa, emerge un ritratto più autentico del Paese: quello di una nazione in cerca di se stessa, lacerata tra sogno e realtà, tra idealismo e disillusione.

America tra cultura e caos: dal silenzio creativo al rumore politico
Ma quanto è distante tutto questo dalla nuova America del disordine e del rumore, quella che ha trovato voce – e megafono – in Donald Trump? Enormemente. Quella di Strand è un’America interiore, poetica, crepuscolare. L’America di Trump, invece, è urlata, viscerale, divisiva, costruita su slogan, paure, appartenenze rigide e semplificazioni brutali. Dove Strand coltiva il dubbio e la mancanza come strumenti di conoscenza, Trump propone certezze granitiche e binarismi taglienti. Dove Hopper raffigura l’attesa come condizione umana profonda, la politica trumpiana trasforma l’attesa in frustrazione, e la frustrazione in rabbia.
La malinconia che emerge dai versi di Strand o dai quadri di Hopper è il frutto di una società che si guarda dentro, che riflette sul senso del tempo, sulla solitudine, sulla finitezza. L’America di oggi — o almeno quella che si è rispecchiata nel trumpismo — sembra aver perso la capacità di introspezione, sostituendola con la spettacolarizzazione dell’io, l’ansia dell’identità, la negazione dell’ambiguità. Dove prima c’era silenzio, ora c’è rumore. Dove prima c’erano spazi vuoti, ora c’è saturazione di immagini, di proclami, di nemici.
Mark Strand non scrive per polarizzare, ma per attraversare le ombre. I suoi versi non cercano il consenso, ma la verità interiore. È per questo che oggi, rileggendolo, si avverte un senso di estraneità rispetto al tempo presente. Non perché la sua poesia sia inattuale, ma perché è troppo umana in un’epoca che sembra preferire il meccanismo al mistero.
Hopper, allo stesso modo, non ci mostra eroi, ma persone normali, perse nei propri pensieri. La sua pittura non urla mai. Eppure ci racconta un’epoca meglio di qualsiasi cronaca. Per questo l’arte e la poesia che hanno narrato un’America malinconica, fragile e riflessiva sembrano oggi quasi provenire da un altro pianeta, da una civiltà diversa, più lenta, più disposta ad ascoltare il silenzio.
Cinema e pittura: l’America sospesa tra luce e ombra
Parallelamente, il cinema americano ha svolto un ruolo fondamentale nel riflettere queste tensioni esistenziali. Registi come Terrence Malick, con le sue opere contemplative e poeticamente meditate (The Tree of Life), hanno esplorato la fragilità umana e la ricerca di senso nel caos del vivere. Sofia Coppola, con Lost in Translation, ha raccontato la solitudine in un mondo iperconnesso, mentre Harmony Korine ha portato sullo schermo il nichilismo e la marginalità delle periferie americane.
Questi film, come i quadri di Hopper o i versi di Strand, non propongono risposte nette, ma creano spazi di riflessione sospesi nel tempo, illuminati da una luce crepuscolare che sfida il ritmo frenetico della contemporaneità. Essi ci mostrano un’America fragile, spesso perduta, in bilico tra memoria e oblio