Marcia Gay Harden, attrice texana classe 1959, ha ricevuto il Premio alla Carriera dell’Ischia Film Festival, in programma dal 29 giugno al 5 luglio, e diretto da Michelangelo Messina.
Vincitrice dell’Oscar nel 2001 per Pollock, candidata di nuovo per Mystic River, premiata con un Tony Award per God of Carnage, Harden ha attraversato con eleganza e precisione quasi ogni genere e decennio: da Vi presento Joe Black a Space Cowboys, da Mona Lisa Smile a Into the Wild, fino ai ruoli più spiazzanti come la fanatica Mrs. Carmody in The Mist e la madre glaciale nella saga di Fifty Shades of Grey.
Ha ricevuto l’Oscar per Pollock, interpretando Lee Krasner. Cosa ha significato per lei quel ruolo?
Interpretare Lee Krasner è stato un processo trasformativo. Era una donna complessa, una pittrice autentica con una visione potente, ma per troppo tempo il suo nome è rimasto schiacciato dall’ombra ingombrante di Jackson Pollock, il marito, l’artista maledetto, il genio riconosciuto. In un’epoca in cui si parla di empowerment femminile, Krasner continua a essere una figura difficile da incasellare: priva di glamour, eppure sensuale in modo profondo, dotata di un’intelligenza feroce, di sarcasmo, di spirito critico. Aveva un corpo minuto, ma una forza interiore straordinaria.
Ha vissuto accanto a Pollock rinunciando, per lunghi tratti, alla propria voce artistica, proteggendolo, costruendo per lui lo spazio – materiale ed emotivo – in cui potesse creare, persino quando tutto intorno sembrava franare. Quando ho ottenuto il ruolo, conoscevo lui, non lei. Ho dovuto studiarla da zero: la voce, i gesti, le rare riprese in videocassetta, tutto ciò che potesse restituirmi la sua presenza senza mediazioni. Ed Harris mi disse soltanto: “Non renderla sentimentale”. E così l’ho portata in scena per quella che era davvero: ruvida, lucida, vera.
Lei ha vinto anche un Tony Award. Come cambia il suo lavoro tra palco e set?
Il teatro ti chiede tutto, ogni sera. È fisico, implacabile, devi attraversare l’intera gamma emotiva dal vivo, senza rete. Ho vinto il Tony nel 2009 con God of Carnage, ma già nel 1993 ero salita a Broadway con Angels in America di Tony Kushner e avevo ricevuto una nomination. Quella pièce mi ha segnata profondamente: raccontava la morte, la malattia, l’abbandono politico. Era un’urgenza civile. Il cinema, invece, è intimo, preciso, chirurgico. Ma la mia ricerca non cambia: cerco sempre la verità, ovunque sia nascosta.
C’è un ruolo che ancora oggi la sorprende?
Due, in realtà. Mrs. Carmody in The Mist, una fanatica religiosa che scatena il panico in un supermercato. Era disturbante da interpretare. Ma necessario. Raccontava come la paura collettiva può essere manipolata con ferocia. Ricevo ancora lettere di persone che mi dicono: “Quella donna mi ha fatto paura per anni”.
E poi c’è Miller’s Crossing, una gangster story dei fratelli Coen, ambientata negli anni ’20, in cui interpretavo Verna Bernbaum, la donna misteriosa e ambigua al centro di una spirale di potere e tradimenti. All’inizio sembrava un ruolo piccolo, ma per me è stato immenso.
Parliamo di Miller’s Crossing. Che ricordo ha di quel set?
È stato un punto di svolta. Avevo poco più di trent’anni, e dopo tanti lavori off-off Broadway, la chiamata dei Coen è arrivata come un fulmine. Non parlavano molto, ma ti dirigevano con assoluta precisione estetica. Ogni colore, ogni pausa era voluta. Mi hanno fatto capire che a volte il cinema si fa con l’invisibile. Ero un’attrice alle prime armi e venivo da anni di rifiuti. Miller’s Crossing è stato il mio primo grande film, e il primo a darmi la sensazione che ce l’avrei potuta fare davvero.
Cosa si porta via da Ischia?
Un senso di pienezza. Questo festival ti ricorda che il cinema è luce, è paesaggio, è respiro. Qui tutto ti invita a rallentare, ad ascoltare. È come se l’isola dicesse: racconta. E io voglio farlo ancora, con nuovi occhi. Credo che l’arte abbia bisogno di tempo per essere capita, proprio come i personaggi che interpreti.
Ultima domanda. Cosa significa per lei, oggi, essere un’attrice?
Significa dire la verità. Anche quando è scomoda, anche quando fa male. Il nostro mestiere non è essere visti, ma vedere. Riconoscere qualcosa di vero, anche piccolo, anche fragile, e restituirlo. E se qualcuno – in sala, a casa, sullo schermo – si sente riconosciuto… allora sì, tutto ha senso.