Con l’arrivo della terza e ultima stagione su Netflix, Squid Game chiude – forse – la propria parabola narrativa, consolidando però in modo inequivocabile la sua influenza globale. Non soltanto per il successo planetario che continua a registrare, ma per la capacità di reiterare le stesse domande scomode con un linguaggio capace di attraversare continenti, generazioni, classi sociali.
La stagione conclusiva rimane fedele alla struttura originaria – sfide mortali, rituali ossessivi, tensione etica crescente – ma cambia lo sguardo. Il centro non è più la vittoria o la sconfitta, bensì la ragione profonda per cui si continua a giocare. I sei episodi ruotano attorno all’idea di fine – del gioco, della speranza, della coesione – senza mai concedersi una chiusura definitiva. Alcuni personaggi trovano una risoluzione, altri si perdono; il sistema che li ha generati però resta intatto, invisibile e spietato, seducente come sempre. Come nella realtà.
Quando debuttò nel 2021, la serie ideata e diretta da Hwang Dong-hyuk fu un’epifania globale: in meno di un mese raggiunse oltre cento milioni di case nel mondo, superando La casa di carta e Lupin, battendo ogni record di esordio sulla piattaforma.
Gi-hun (Lee Jung-jae) è solo. L’uomo che voleva distruggere il sistema dall’interno ha fallito: la sua rivolta si è trasformata in un massacro, e il senso di colpa lo accompagna come un’ombra. Di fronte a lui c’è il Front Man (Lee Byung-hun), figura enigmatica e glaciale, che abbiamo scoperto essere In-ho, il fratello maggiore del poliziotto Jun-ho.

È il cuore pulsante della serie: la lotta tra empatia e cinismo, tra dignità e sottomissione, tra chi sceglie di resistere e chi, pur comprendendo l’orrore, contribuisce a perpetuarlo. Le linee narrative si intrecciano su tre fronti: i giochi sull’isola, la caccia di Jun-ho al fratello, e la resistenza di No-eul, giovane madre determinata a sopravvivere senza rinunciare alla propria dignità. Ma è Gi-hun a tenere insieme ogni cosa, in una discesa solitaria verso una redenzione che forse non arriverà.
In Corea del Sud, paese dove l’ideologia del merito ha spesso prodotto esclusione, debito, isolamento, Squid Game è diventato specchio e catarsi: un racconto capace di restituire alle vittime silenziose del sistema una forma di rappresentazione e, forse, di riscatto.
In Corea del Sud, paese dove l’ideologia del merito ha spesso prodotto esclusione, debito, isolamento, Squid Game è diventato specchio e catarsi: un racconto capace di restituire alle vittime silenziose del sistema una forma di rappresentazione e, forse, di riscatto.

La frase – “Non siamo cavalli. Siamo esseri umani.” – torna più volte lungo la stagione, come una crepa che si apre nel meccanismo. Non interrompe il gioco, ma ne incrina la logica. In un sistema che premia la competizione cieca e trasforma le persone in funzioni eliminabili, affermare la propria umanità è un atto radicale.
Poi arriva il colpo di scena. Los Angeles, un vicolo, due tessere di ddakji sbattono sul suolo. Un uomo viene schiaffeggiato. Il Front Man osserva dalla macchina. E lei appare: Cate Blanchett. Capelli biondi, sguardo gelido, la nuova reclutatrice americana. Un cameo silenzioso ma fulminante, che sigilla con un solo sguardo ciò che lo spettatore ormai ha compreso: i giochi non finiscono, si moltiplicano.
Che piaccia o meno, Squid Game continua a parlare del mondo in cui viviamo: della sua brutalità sistemica, ma anche della capacità di suscitare reazioni. Parla di chi osserva senza intervenire, di chi partecipa giustificandosi, di chi si illude di essere al sicuro solo perché – per ora – resta fuori dall’arena.