Nel piazzale della sede dell’ONU, tra l’East River e le bandiere che segnano l’ingresso del Palazzo di Vetro, una scultura di bronzo attira lo sguardo per la sua struttura insolita: una sfera incisa da tagli profondi, simile a un frutto aperto o a un ingranaggio scoperto, che lascia intravedere un interno complesso, difficile da decifrare. Ogni giorno vi passano davanti diplomatici, funzionari, capi di Stato, visitatori. Non rappresenta la pace, ma ne suggerisce la condizione instabile. È lì dal 1996, dono del governo italiano, opera di Arnaldo Pomodoro, uno dei maggiori scultori italiani del secondo Novecento, scomparso a Milano il 22 giugno, alla vigilia dei suoi novantanove anni.

Nato nel 1926 in Romagna e cresciuto a Pesaro, Pomodoro si è formato come geometra e progettista prima di approdare all’arte. Arrivato a Milano negli anni Cinquanta, ha frequentato Lucio Fontana e i circoli più sperimentali, ma non si è mai chiuso in un movimento o in una scuola.
Il primo contatto con gli Stati Uniti risale al 1959, quando viene invitato a esporre alla mostra New York from Italy organizzata dalla John Bolles Gallery di San Francisco. È l’inizio di un dialogo che non si interromperà: negli anni successivi Pomodoro torna spesso, insegna alla University of California a Berkeley e al College di Oakland, partecipa a mostre, stringe relazioni con istituzioni e musei. Nel 1963 una sua sfera entra nella collezione permanente del Museum of Modern Art di New York, segnando non solo un riconoscimento, ma anche l’inizio di una presenza stabile nella scena artistica americana.

Nnel 1995 ha istituito la Fondazione Arnaldo Pomodoro, a Milano, che oggi custodisce oltre duecento sue opere, tra cui il Grande Disco di piazza Meda, la Colonna dell’Università Bocconi, Novecento al Palazzo dello Sport dell’EUR, e la Sfera di San Leo nel quartiere Santa Giulia.
Chi osserva le sue sfere, oggi, può riconoscere una forma diventata familiare, ma che continua a contenere un elemento di perturbazione. La superficie levigata, il bronzo lucidato, non servono a rassicurare. Sono il modo più diretto per mostrare che ogni struttura, anche quella più precisa, contiene in sé una possibilità di crisi. “L’arte pubblica è un atto di responsabilità”, diceva. “Ogni scultura è una domanda aperta che lasciamo alla città, al paesaggio, alla storia”.
I riconoscimenti non gli sono mancati: dal Gran Premio Henry Moore al Praemium Imperiale giapponese, dalla Croce di Cavaliere della Repubblica al Premio Morandi. Oltre che scultore, è stato anche scenografo, progettista, curatore, poeta visivo. Ha lavorato per il teatro di Zurigo, per la Fenice, per il Maggio Musicale Fiorentino. Negli anni Ottanta firmò scene e costumi per Semiramide di Rossini e Alceste di Gluck, e nel 2004 progettò scenografie e strutture per una memorabile Madama Butterfly al Festival Pucciniano di Torre del Lago.
Ma il cuore del suo lavoro è sempre tornato alla scultura, soprattutto a quella all’aperto, che dialoga con la città, con la luce, con il tempo.