New York gli ha insegnato a guardare nel caos. Roger Ballen è cresciuto tra i grattacieli e i cunicoli della metropoli americana, in una città che negli anni Cinquanta e Sessanta alternava il sogno americano al crollo delle sue illusioni. Figlio di una collaboratrice dell’agenzia Magnum Photos, ha imparato fin da ragazzo a leggere la realtà nelle sue crepe, nei margini, tra le pieghe più sporche e dimenticate dell’esistenza. È lì che ha cominciato a intuire che l’immagine può essere una trappola per la verità, ma anche uno specchio deformante del nostro inconscio.
Da oltre quarant’anni Ballen vive in Sudafrica, dove ha trovato il suo terreno visivo: paesaggi psichici abitati da personaggi ai limiti, animali fuori contesto, pareti scarabocchiate come fogli di diario, corpi immobili intrappolati in una realtà surreale. Il suo è un linguaggio fotografico che parte dal documentario ma presto lo abbandona per diventare teatro dell’assurdo, performance silenziosa, disegno dell’inconscio.

Oggi, quel linguaggio prende corpo al Mattatoio di Roma. Disegnato dall’ingegnere Gioacchino Ersoch e costruito tra il 1888 e il 1891, il complesso si estende per oltre centomila metri quadrati nel cuore di Testaccio. Un tempo snodo nevralgico per la macellazione animale della Capitale, è rimasto in funzione fino al 1975, per poi rinascere, dagli anni Novanta, come polo culturale. Dal 27 maggio fino al 27 agosto i suoi padiglioni accolgono Animalism, una grande mostra dedicata all’opera di Ballen e alla sua ossessione per il rapporto tra umani e animali, tra l’istinto e la maschera sociale.
“Il Mattatoio è stato pensato per contenere la violenza che sta alla base della civiltà, per regolare il rituale della morte”, spiega Ballen. “Ma non è solo un luogo fisico. È un bacino psichico di forze archetipiche: morte, controllo, sacrificio. I coltelli non ci sono più, ma le pareti ricordano. E quella memoria dialoga con le mie immagini, che sono sempre state un modo per scandagliare l’ombra, il rimosso, il perturbante”.

In mostra: Animalism, Mattatoio di Roma, Padiglione 9A
La mostra – curata da Alessandro Dandini de Sylva e Marguerite Rossouw – è concepita come un viaggio dentro una mente. Il punto di partenza è il padiglione 9A, dove il visitatore entra in una camera luminosa: un diaframma visivo che introduce alle ventuno fotografie scattate tra il 1996 e il 2016. Bianco e nero netto, frontalità spietata, oggetti enigmatici, pareti vissute: è qui che si delinea la grammatica visiva dell’artista. Poi si scende. Si entra in uno spazio buio, centrale, dove otto proiettori gettano su grandi tele immagini tratte dai principali cicli di Ballen: Outland, Shadow Chamber, Boarding House, Asylum of the Birds, Roger’s Rats. Le proiezioni non seguono un ordine, non raccontano: appaiono e scompaiono, come sogni spezzati, come pensieri disturbanti. Il tutto accompagnato da una traccia sonora di Cobi van Tonder, che amplifica il senso di instabilità e spaesamento.
L’ultima sala ospita quattro lightbox e una videoanimazione ispirata alla serie The Theatre of Apparitions: un teatro di fantasmi, dove il confine tra visione e allucinazione si fa sempre più labile.
Anche l’uso del disegno – linee a gesso, scarabocchi infantili, graffiti sul nulla – fa parte dello stesso processo: l’immagine non basta più, si apre, si spezza, lascia entrare il rumore di fondo dell’inconscio.
E l’animale? Non è mai stato semplice decorazione. Nelle prime fotografie sudafricane – Platteland, Outland – gli animali vivono negli spazi insieme agli uomini. Non sono messi in posa: convivono, partecipano, sopravvivono. Ma col tempo, come racconta Dandini de Sylva, “si trasformano in simboli, in presenze psichiche. Da compagnia diventano metafora, incarnazione dell’istinto. Ballen dice che proprio perché non recitano, gli animali portano alla luce una verità più profonda, più nuda”.