Ci sono voluti anni – e il coraggio di guardarci dentro – prima che Francesca Comencini riuscisse a raccontare suo padre. “Il tempo che ci vuole”, titolo emblematico del film presentato alla rassegna Open Roads al Lincoln Center di New York, è più che un’opera cinematografica: è un atto d’amore. Francesca racconta Luigi Comencini, non il regista amato da più generazioni, ma il padre, capace di affrontare la paura infantile della balena e il dramma adolescenziale della droga. Un padre presente, paziente, affettuoso, ma anche capace di fermezza: figura sempre più rara oggi.
A interpretarlo Fabrizio Gifuni, attore di straordinaria sensibilità e padre di due figlie. Lo incontriamo a New York, dove ha accompagnato il film alla proiezione inaugurale della rassegna. La prima domanda non può che essere personale: quanto lo ha toccato interpretare questo ruolo?
“Non avrei potuto farlo dieci anni fa, né venti,” dice senza esitazioni. “Il mio vissuto privato è stato determinante. Pur non avendo avuto, fortunatamente, le stesse esperienze drammatiche di Francesca, ho riconosciuto in Luigi una qualità rara: la capacità di ascoltare. Un ascolto profondo, quasi radicale. Quello sguardo, quel modo di esserci, è qualcosa che sento di avere dentro anch’io. E non è un caso: recitare è soprattutto ascoltare. Se non ascolti, non puoi reagire. Strasberg diceva: ‘Acting is reacting’. L’essere umano esiste solo nella relazione con l’altro.”
E proprio l’essere padre, ci racconta, ha reso possibile un’immersione più profonda nel personaggio: “Avere due figlie femmine è diverso dall’avere due figli maschi. Ti cambia lo sguardo. Ti costringe a metterti in discussione continuamente.”

Il film non è solo un ritratto familiare. È anche una riflessione più ampia sulla paternità, sul fallimento, sull’imperfezione. “Francesca ha avuto la bravura di trasformare questa storia così intima in qualcosa di universale, e la reazione del pubblico è stata molto forte in tutti gli incontri, in Italia e all’estero, una partecipazione che raramente ho visto. Come se quella fosse la storia privata di tante persone. Viviamo in un tempo in cui alle nuove generazioni è stato imposto l’obbligo del successo. Devi riuscire, devi affermarti. E non c’è spazio per l’errore. Ma la fragilità, la paura, il dubbio sono parti fisiologiche della crescita. E oggi la paura del futuro è amplificata rispetto a quando eravamo giovani noi.”
Racconta con ironia come anche in famiglia si confrontino con questo tema: “Una delle mie figlie mi ha detto: ‘Hai fatto un film sul fallimento, ma io so che non è così’. E ci ridiamo su, perché è anche questo che proviamo a trasmettere: non farsi travolgere dall’ansia del tempo. Il senso di inadeguatezza c’è, ce lo abbiamo tutti, ma si può affrontare.”

Gifuni è anche un uomo di teatro. Un teatro civile, fatto di memoria e presenza. Da Moro a Pasolini, ha portato in scena figure che interrogano la nostra storia e il nostro presente. Gli chiediamo: che Italia incontra girando i teatri del Paese?
“Un’Italia, per una volta, confortante. I teatri sono pieni. Le sale cinematografiche no, ma non è colpa del cinema italiano. È il mondo che è cambiato. Il cinema oggi si consuma in modo diverso e gli esercenti sono costretti a ripensare il modello stesso di sala. Ma il teatro è un luogo di resistenza dell’umano. C’è bisogno dei corpi, della presenza, del silenzio condiviso.”
Nel suo ultimo lavoro teatrale ha messo in scena i “due cadaveri eccellenti” di Moro e Pasolini. “Sono fantasmi che segnano una faglia sismica nella storia d’Italia. In quella faglia sono cadute molte cose: la nostra memoria, la nostra capacità di ricordare. Ecco perché quei due corpi sepolti sono così importanti. Il teatro è l’unico luogo dove questi fantasmi possono tornare a parlare, e dove qualcuno può ancora ascoltarli.”
E a chi gli chiede se il pubblico del teatro sia solo una minoranza, risponde: “Sì, certo, è una minoranza rispetto alla massa. Ma è una minoranza vitale. E negli ultimi anni ho visto tanti ragazzi. Questo, per me, è un segno di speranza.”
“Il tempo che ci vuole” replica il 3 giugno alle 16 al Walter Reade Theatre. Un film da vedere con il cuore aperto. Perché il racconto di un padre, oggi, è anche un modo per ripensare se stessi.