Dopo quattro anni di chiusura, progettazione e lavori, il 31 maggio riapre la Michael C. Rockefeller Wing del Metropolitan Museum of Art, completamente ripensata su oltre 3.700 metri quadrati grazie al progetto dell’architetto Kulapat Yantrasast (studio WHY), in collaborazione con Beyer Blinder Belle.
Tre grandi geografie si danno appuntamento in questa ala: l’Africa subsahariana, le Americhe indigene e l’Oceania. Ma non si presentano come continenti fissi: si muovono lungo linee oblique che attraversano materiali, riti, ferite e resistenze. La nuova Michael C. Rockefeller Wing è interamente dedicata a opere un tempo classificate come “primitive” e oggi finalmente valorizzate nella loro specifica identità culturale. Sono 1.726 i pezzi esposti – tra statue, pali funerari, gioielli, maschere, affreschi, dipinti, fotografie e tessuti – frutto di donazioni e acquisizioni, che trovano ora una collocazione più coerente con la conoscenza e il rispetto crescenti nei confronti delle tradizioni da cui provengono.

L’ingresso nella galleria dedicata all’Oceania è un passaggio nell’immaginifico. La scansione dei moderni archi della volta evoca l’interno del corpo di una balena, o una canoa capovolta. La luce riflessa nel bianco delle pareti e nei vetri delle bacheche guida lo sguardo verso sculture alte, fantastiche, intagliate nel legno, che rappresentano corpi umani o creature simboliche. Le sculture Asmat raccolte da Michael Rockefeller dialogano con opere contemporanee che riflettono su continuità culturali e traumi storici. Al centro dell’allestimento si trova il soffitto cerimoniale Kwoma, esposto in una sala illuminata da luce naturale. Lungo il percorso, oggetti rituali e domestici, opere maschili e femminili superano le distinzioni tra sacro e quotidiano, rivelando una lettura culturale più complessa.

Il colpo d’occhio prosegue nell’area dedicata all’Africa subsahariana, dove una volta architettonica evoca la Grande Moschea di Djenné. Cinquecento opere, dal XII secolo a oggi, sono distribuite in uno spazio che segue il flusso della memoria, non la cronologia. I tessuti monumentali di Abdoulaye Konaté ricoprono intere pareti come mantelli cerimoniali cuciti di colore e politica. Una serie di film documentari di Sosena Solomon accompagna i visitatori con voci sussurrate: artigiani, cantastorie, madri. Dopo alcune gallerie di passaggio più scure – pensate per proteggere le opere dalla luce – si apre l’ala vetrata dedicata alle Americhe indigene.
Circa 700 oggetti in ceramica, piume, metallo e codici raccontano le culture maya, inca, zapoteca e caraibica come strutture ancora vive. Una galleria speciale è dedicata ai tessuti andini, approfondendo tecniche, simbolismi, ruoli di genere e gerarchie spirituali. La disposizione mira a valorizzare l’identità di ciascuna opera e delle comunità da cui proviene.

“L’idea non è semplicemente quella di esporre”, spiega la curatrice Alisa LaGamma. “È far parlare. E le voci che si ascoltano ora non sono quelle del collezionista, dello storico dell’arte, del curatore. Sono quelle degli artisti. E delle comunità da cui queste opere provengono”.
Questa nuova interpretazione ha radici profonde. Quando, agli inizi del Novecento, il Metropolitan Museum ricevette una donazione di arte precolombiana, la trasferì al Museo di Storia Naturale, ritenendola più adatta a stare tra i dinosauri e i minerali. L’arte “primitiva” era allora priva di autori riconosciuti, e priva di contesto culturale. Anche Nelson A. Rockefeller, collezionista e politico, trovò poco entusiasmo quando, negli anni ’50, propose di donare la propria collezione al Met. Fondò allora un proprio Museo di Arte Primitiva, inaugurato nel 1957 in una townhouse sulla 54esima strada, vicino al MoMA, di cui sua madre Abby Aldrich Rockefeller era cofondatrice.
Ci sono voluti altri dodici anni perché il Met riconoscesse il valore di queste collezioni, decidendo di costruire un’ala dedicata. A quel punto, alla raccolta si erano aggiunte anche le opere provenienti da Australia e isole del Pacifico, collezionate dal figlio di Nelson, Michael Rockefeller, giovane etnologo scomparso in Nuova Guinea nel 1961, all’età di 23 anni, durante una spedizione esplorativa.

Oggi il museo è anche un corpo familiare. Mary Rockefeller Morgan, sorella gemella di Michael e oggi 87enne, ha seguito da vicino il processo di trasformazione. “Quello che vedo oggi – ha detto – è il sogno di mio padre. E anche quello di Michael”.
Nel giorno dell’inaugurazione, il Met si trasformerà in una piazza. Tra mezzogiorno e le sei, i cortili ospiteranno performance, danze tradizionali, piatti del Queens Night Market ispirati a cucine precoloniali. L’artista Manny Vega guiderà un’azione collettiva sulla scalinata. L’arte, per un giorno almeno, esce dalle teche. Parla. Cammina. Suona.