A Basilea, nel cuore disciplinato della Svizzera, l’Eurovision Song Contest ha dato un’ulteriore prova di sé: ovvero che l’assurdo, l’imprevisto e l’emozione possono coesistere, brillare e perfino vincere. A imporsi è stato JJ, controtenore viennese di 24 anni, con una ballata elettro-drammatica intitolata Wasted Love. Una canzone tormentata sull’amore non corrisposto, cantata in falsetto, su una barca in bianco e nero sbattuta da onde finte. Eppure vera, sincera, sentita.
L’esito si è deciso negli ultimi secondi, quando il televoto ha ribaltato i risultati delle giurie. Israele, che sembrava già pronta a festeggiare, è stata sorpassata da JJ per un distacco netto, ma giunto all’improvviso. Non era previsto, e proprio per questo era perfetto. Eurovision, d’altronde, non è mai stato una gara prevedibile.
È difficile spiegare cosa sia davvero Eurovision a chi non lo guarda. Non è una competizione canora nel senso tradizionale, né un’operazione commerciale. È un rito annuale, una celebrazione collettiva del gusto eccentrico, dell’orgoglio identitario, dell’ironia e della malinconia, a volte anche dello scandalo. È una zona franca, dove le regole del mercato musicale – lingua inglese, brani radiofonici, estetica controllata – smettono di valere. In scena non si cerca la hit, si cerca lo stupore.
E così, in una stessa serata, si può passare da una cantante israeliana sopravvissuta a un attacco terroristico che canta un inno di rinascita, a una finlandese che vola su un microfono fallico lanciando scintille. Da un inno alla madre morta urlato dentro una tempesta di sabbia a un brano estone sul caffè e gli spaghetti. Da un ragazzo olandese che balla con il suo sé bambino in uno specchio, al folk italiano con armonica dal vivo. Non c’è un filo logico, ma c’è un filo emotivo che tiene tutto insieme.
L’Italia, che dal trionfo dei Måneskin nel 2021 continua a essere guardata con un misto di ammirazione e diffidenza, quest’anno ha portato sul palco Lucio Corsi, arrivato quinto con Volevo Essere Un Duro. Nessun costume appariscente, nessuna coreografia eccessiva, solo uno stile riconoscibile e profondamente personale. Un’autoironia rara che ha saputo farsi notare in mezzo al caos programmato di Eurovision.
Anche la Svizzera ha sperimentato l’instabilità del format: seconda dopo i voti delle giurie, è crollata al decimo posto per colpa di un televoto impietoso. Nel frattempo si sperava nell’apparizione di Céline Dion, vincitrice nel 1988, ma non si è mai vista.
E poi c’è JJ, che nel backstage ha detto di voler solo dormire, dopo aver dato tutto. Ha parlato d’amore come di una forza invincibile, “la più potente del pianeta”, e forse lo ha pensato sul serio. La sua vittoria, per quanto assurda, ha un senso dentro la logica misteriosa di Eurovision: quella di premiare non chi è perfetto, ma chi è vero.
Eurovision resta qualcosa di difficilmente classificabile. Troppo disordinato per rientrare nei canoni dei premi americani, troppo anarchico per seguire una forma precisa. Più che un concorso musicale, è una strana coreografia di differenze: un esercizio di convivenza messo in scena con musica, luci e travestimenti. Un mosaico di identità si prendono sul serio, ma non troppo.