Antony and Cleopatra, la nuova opera di John Adams andata in scena al Metropolitan Opera House, è intensa. L’orchestra, diretta dallo stesso compositore, è implacabile: ottoni, percussioni e cimbalo costruiscono una base sonora che lascia poco spazio alla melodia. I cantanti, amplificati per farsi sentire sopra la massa orchestrale, sono eccellenti: Julia Bullock e Gerald Finley dominano la scena con voci e presenza scenica notevoli.
Scene, costumi, proiezioni, coro e danzatori compongono un allestimento imponente. Ma musica e libretto risultano faticosi. Adams ha debuttato come librettista dopo le collaborazioni con Alice Goodman in Nixon in China e The Death of Klinghoffer e poi Peter Sellars, scegliendo di adattare direttamente Shakespeare con un inserto virgiliano. Il testo è ricco, la lingua alta, ma è difficile seguire e insieme prestare attenzione alla musica che procede a ritmo serrato.
Non è la prima volta che Antony and Cleopatra tenta la via dell’opera: nel 1966 ci provò Samuel Barber, ma dopo otto repliche al Met l’opera fu ritirata. Le critiche si concentrarono su Zeffirelli, accusato di affondare la partitura con un allestimento grandioso, ma nemmeno la musica — nonostante la voce leggendaria di Leontyne Price — convinse davvero.

Adams presenta ora la sua versione dopo il debutto a San Francisco nel 2022 e la ripresa a Barcellona. Ha tagliato venti minuti dalla partitura originale di quasi tre ore, ma l’opera resta lunga perché non ha respiro. La musica martella, la narrazione corre: Egitto, Roma, passioni, tradimenti, ambizioni, la battaglia di Azio, la sconfitta e il doppio suicidio. La densità drammaturgica e musicale lascia poco spazio alle emozioni, ai duetti, alle arie.
Ci sono però momenti di grande bellezza: il duetto O love tra Antonio e Cleopatra prima della battaglia, l’interludio orchestrale ispirato al preludio de L’Oro del Reno di Wagner, e l’aria struggente di Ottavia (splendida Elizabeth DeShong). Ma nel complesso il fraseggio ripetuto e il ritmo costante danno l’impressione che la musica serva più a sostenere la narrazione che a farla respirare.

La regia di Elkhanah Pulitzer è visionaria. Con la scenografa Mimi Lien crea un mondo che fonde l’Egitto antico con la Hollywood degli anni ’30 e la Roma fascista. Pareti nere mobili diventano una piramide, l’ufficio di Ottaviano, il balconi da cui arringa il popolo, mentre le proiezioni in bianco e nero di Bill Morrison (discutibile l’inserimento di San Pietro per evocare Roma fascista) aggiungono atmosfera. L’oro domina le scene del trionfo. Antonio e Cleopatra sono divinità paragonabili alle star di Hollywood e li inseguono i paparazzi (scelta ridondante). I costumi di Constance Hoffman mescolano pepli, divise, tessuti translucidi, mischiando epoche e generi. L’Egitto diventa art déco, mentre i danzatori guidati da Annie-B Parson evocano i bassorilievi egizi e il passo dell’oca.
Tutti i cantanti, anche nei ruoli secondari — Alfred Walker (Enobarbo), Jarrett Ott (Agrippa), Taylor Raven (Charmian) — sono di grande livello. Ma la scena appartiene a Julia Bullock: regale, intensa, drammatica. Il suo urlo alla morte di Antonio gela la sala. La sua Cleopatra, che richiama visivamente Elizabeth Taylor nel film di Mankiewicz, strega il pubblico. La relazione scenica con Finley è perfetta: dall’erotismo iniziale all’odio finale, entrambi sono attori, non solo cantanti. Bravo anche Paul Appleby, Ottaviano Cesare, che guadagna spazio con il monologo di Anchise dall’Eneide in cui immagina la futura grandezza di Roma. Un inserto colto, funzionale a creare un’aria per il tenore.

Antony and Cleopatra è una produzione visivamente grandiosa, piena di invenzioni registiche e con interpreti straordinari. Ma il libretto e la partitura, pur colti e strutturalmente coerenti, non riescono a restituire la complessità emotiva della tragedia shakespeariana. Una grande costruzione intellettuale, che non riesce a commuovere.