“E pensare che quella battuta non era scritta così sul copione”. Sono passati venticinque anni dal film eppure Luca Ward, romano, classe 1960, rimane la voce de Il Gladiatore, ruolo che l’ha eletto doppiatore invincibile. Per sempre l’alter ego di Russell Crowe. Anche se è stato ed è molto di più: un attore che passa attraverso teatro, radio, musical, cinema e televisione. Allo spettacolo è arrivato prestissimo, bambino prodigio negli sceneggiati Rai in bianco e nero diretti da Sandro Bolchi, Edmo Fenoglio, Anton Giulio Majano. A tre anni recitava in Demetrio Pianelli, a sei nel Conte di Montecristo, a undici ne E le stelle stanno a guardare. Una carriera da predestinato. Finché è entrato in sala doppiaggio.
Come andò?
“Era il 1981, facevo colazione seduto al tavolino di un bar in piazza del Popolo. Barba e capelli lunghi, occhi pesti. Tornavo dal deserto iracheno, uno dei viaggi intercontinentali a bordo del bestione Fiat Iveco Turbostar. Facevo il camionista e non sapevo niente del futuro”.
Quand’ecco che?
“Si fermò Pino Locchi, l’avevo conosciuto bazzicando il cinema. Era un monumento: la voce magistrale di Sean Connery, il vero e unico 007. Mi guardò: tu non sei un autista, ti aspetto in via Margutta dove si fa il doppiaggio. Ero incerto ma decisi di andare. Entrai in sala voci e in un certo senso non ne sono ancora uscito”.

Un appuntamento col destino?
“Locchi aveva predetto che un giorno sarei stato anch’io 007. E’ successo nel ’95 quando ho doppiato Pierce Brosnan in Golden Eye. Il provino era la battuta classica: il mio nome è Bond, James Bond. C’era anche una scena al tavolo del black jack, dovevo dire semplicemente: carta. Ero emozionatissimo, non m’era mai accaduto. Il direttore Pino Colizzi, doppiatore di Nicholson e De Niro, mi mandò a casa: torna domani, disse. Ebbi la parte. E altre ancora”.
Poi spuntò Crowe con quella battuta epica.
“Non venne facile, l’ho rifatta una ventina di volte prima di trovare il tono giusto. Il pubblico non sa che la frase chiave è stata cambiata durante la registrazione. Il copione prevedeva che dicessi: al mio segnale, scatenate i cani. Era un’immagine debole, per nulla evocativa della tensione del momento. Fiamma Izzo, capo del doppiaggio, ebbe un lampo: niente cani. E’ molto meglio dire: scatenate l’inferno. Funzionava talmente bene che Ridley Scott rubò l’idea, modificando tutte le edizioni del film”.
Aveva previsto l’enorme successo?
“E’ stata una sorpresa totale. Davanti al leggio guardi solo le sequenze del tuo personaggio. Ho visto il film per intero due anni dopo l’uscita, in un’arena estiva a Sperlonga. Gli spettatori impazziti. Era un capolavoro di regia, attori, scene. Ho capito perché mi fermavano per strada: a’ gladiatò, sei proprio gajardo“.
Lei appartiene a una dinastia.
“Mia nonna era attrice e doppiatrice, il secondo marito pure. Mio padre attore e doppiatore. Mia madre attrice. Quindi io, mio fratello Andrea e mia sorella Monica. Mia moglie è attrice, la mia ex moglie doppiatrice. Infine c’è la quarta generazione: mia figlia Guendalina e i miei nipoti Federico e Alessandro, anche loro doppiatori. Quanti siamo? Ho perso il conto”.
La vostra cena di Natale diventa la notte degli Oscar?
“Io sono Crowe, Hugh Grant, Richard Gere, Costner, Banderas, Tom Hanks, Mel Gibson, Bruce Willis e via così. Mio fratello è Keanu Reeves e Van Damme. Mia sorella è Jennifer Aniston e Salma Hayek. Mi fermo, l’elenco è troppo lungo. Ah, un’altra cosa: io e mio fratello doppiamo entrambi Andy Garcia, a completare la confusione”.
Gente speciale. Il suo è un cognome d’arte?
“Macché. Mio nonno era William James Ward, comandante della Marina americana. La sua nave era alla fonda al porto di Livorno. Fu invitato a teatro, sul palco vide mia nonna Jone, donna bellissima. Colpo di fulmine e matrimonio. Ma lui morì a 36 anni: una fine tragica”.
Che cosa accadde?
“Trasportava un carico dal Sudafrica, l’equipaggio era per metà di neri. Ci fu un’epidemia di febbre gialla e si ammutinarono: gettarono in acqua mio nonno per prendersi la nave”.
Una famiglia schiantata.
“Quando morì il comandante nel 1918, mio padre Aleardo aveva tre anni. Si diplomò perito agrario. Però mio nonno acquisito lo convinse a recitare: era Carletto Romano, leggenda del doppiaggio, la voce di Jerry Lewis e Don Camillo”.
Nel frattempo Luca?
“Era un ragazzino che a 13 anni restò senza il padre fulminato da un aneurisma. Mia madre Maresa si ritrovò giovane vedova senza un soldo. Convocò noi figli e mise sul tavolo cinquemila lire: abbiamo solo questi, disse. Il giorno dopo cominciai a lavorare come facchino in una ditta di traslochi”.
E a un certo punto si sedette in quel caffè a piazza del Popolo?
“Ho provato a fare altro, ma la vita mi portava lì: essere un attore”.

Con quella voce non avrebbe potuto fare diversamente.
“La voce non basta. Dietro la dote naturale ci sono studio, disciplina, e tecnica. Devi adeguare il timbro all’interprete sullo schermo. Non devi distorcere la sua recitazione. Devi trasmetterne le emozioni. Cose che si imparano nell’unica scuola: il teatro”.
Le piace il suo lavoro?
“E’ una sfida continua. Mi chiudo in camera con il copione, leggo e ripeto per ore, esco solo se sono pronto. Da professionista che ha fatto la gavetta”.
Il doppiatore è un bravo attore o un attore di serie B?
“Dipende. Oreste Lionello ha migliorato Woody Allen, stesso discorso per Michele Kalamera con Clint Eastwood. Proietti è stato grande in entrambi i ruoli, Giannini pure”.
Sa sempre chi è?
“Porto in teatro uno spettacolo intitolato Il talento di essere uno o nessuno. Non ho problemi d’identità”.
L’attore che preferisce?
“Ho interpretato più di 900 film da doppiatore, se devo fare un nome dico Hugh Grant. Quando scoprì che non ero io la sua voce italiana in Notting Hill, ha chiesto: Luca Ward è morto? Mi hanno richiamato per il film successivo a paga doppia”.
Ha conosciuto Russell Crowe?
“E’ venuto a Roma e ha voluto vedermi. Mi ha fatto i complimenti. Abbiamo parlato a lungo, è un uomo buono, tosto e perfezionista sul lavoro”.
Per i suoi figli è un gladiatore?
“Guendalina ha superato i quaranta e prevale la tenerezza verso il padre. Invece con Lupo e Luna, che hanno 18 e 16 anni, certe volte devo farmi sentire”.
Come se la sbriga?
“Tiro fuori il pezzo forte: Mi chiamo Massimo Decimo Meridio, comandante dell’esercito del Nord, generale delle legioni Felix, servo leale dell’unico vero imperatore Marco Aurelio. Padre di un figlio assassinato, marito di una moglie uccisa. E avrò la mia vendetta, in questa vita o nell’altra. Funziona sempre”.