Nel silenzio di una scena scura una bambina, abito di velluto nero con colletto di pizzo bianco, capelli biondi, viso innocente, gioca con la sua bambola. L’incanto si spezza presto. La rabbia dirompe, la bambola viene fatta a pezzi. A pezzi è la psiche di Salome, nella versione di Claus Guth dell’opera di Strauss andata in scena al Metropolitan Opera House di New York. Quando finalmente il clarinetto intona le prime note il pubblico ha già intuito il dramma di violenza infantile della protagonista.
Claus Guth, al suo debutto nel teatro newyorkese, è noto per i suoi allestimenti provocatori. Questo lo è particolarmente. Nella sua versione Salome, interpretata dal soprano sudafricano Elza van den Heever, è stata abusata ripetutamente da Erode, e la sua danza dei sette veli non è un sensuale striptease, come di solito si rappresenta, ma una dolorosa rievocazione degli abusi negli anni, grazie all’apparizione di sei suoi doppioni, da piccola bambina fino ad adolescente. Ognuna di loro ha un velo, ad ognuna viene tolto, mentre un doppione di Erode, mezzo uomo e mezzo mostro, come nei miti, o come in Eyes wide shut il film di Kubrick cui il regista ha ammesso di aver pensato, balla in modo sempre più invasivo con Salome.

La ragazza chiede come premio per la sua danza la testa di Giovanni Battista, che qui si chiama Jochanaan, la chiede con insistenza: nella perversione cui è stata abituata il sesso se lo prende chi ha potere su chi non ne ha, con che diritto Jochanan quindi le ha negato un bacio? Tagliandogli la testa potrà finalmente baciare quelle sue labbra vermiglie.
L’azione si svolge in epoca vittoriana, l’epoca perbenista e puritana in cui Oscar Wilde ha creato il dramma, pubblicato in francese nel 1893, poi musicato da Strauss nel 1905 su libretto tedesco di Hedwig Lachmann. La scena (creata da Etienne Pluss), è nera, la prigione dove è rinchiuso Giovanni Battista bianca, gli abiti sono neri eccetto quello arancione di Erodiade (i costumi sono di Ursula Kudrna) unica nota di colore a significare che proprio lei, la donna accusata di lussuria, è l’unica libera di tutta la storia. Le luci (di Olaf Freese) sono anche monocromatiche come le proiezioni luminose di Salome bambina che danza o del vento e la tempesta sullo sfondo. La scena si muove in verticale: il palazzo del re sale lentamente scoprendo la sottostante prigione di Giovanni Battista.
Tutto è giustamente molto cupo il movimento di scena notevole, la trovata delle parti spezzate di Salome nei sei doppioni di sé geniale, peccato che la regia si perda in inutili scene di lussuria sullo sfondo, una donna nuda circondata da uomini minotauro che la posseggono che entra ed esce diverse volte, e inutili simbolismi. Le calze bianche e le scarpe che la soprano toglie e mette non sono essenziali alla storia e le fanno fare solo uno sforzo di equilibrio. Come l’abito nero collegiale che toglie quando scende nella prigione di Giovanni Battista rimanendo con una veste bianca a significare che solo lì ritrova la sua purezza infantile (concetto amplificato dalla presenza dei suoi giocattoli, e di una piccola sé che gioca con una bambola). Immagini significative certo, ma che non aggiungono nulla e distraggono dalla bellissima voce di Elza van den Heever che per tutta la durata dell’opera, 100 minuti, un atto unico, è in scena e canta. La sua voce racconta il dramma dalle note più morbide iniziali in cui scopre la presenza di Giovanni Battista nella prigione, e se ne invaghisce, al monologo finale sulla testa mozzata del santo che è potente, straordinariamente drammatico, folle. “Ah! Ich habe deinen Mund geküßt, Jochanaan,” ripete, cercando di sovrastare il forte dell’orchestra, diretta da Yannick Nézet-Séguin, e ci riesce cristallina, grandiosa. Una voce che ha tirato in piedi tutto il teatro negli scroscianti applausi finali.

Applaudito anche il baritono Peter Mattei nell’ingrato ruolo di Giovanni Battista costretto a cantare non visto sia all’inizio che alla fine, e in catene il resto del tempo. Il tenore Gerhard Siegel nel ruolo di Erode, il mezzo soprano Michelle DeYoung in quello di Erodiade.
Salome alla fine tira giù una grande statua di minotauro, abbatte il tiranno che l’ha abusata, e quando canta la sua follia sulla testa mozzata di Giovanni Battista le altre piccole versioni di sé arrivano ad abbracciarla: la giovane principessa ritrova le parti spezzate di sé. Non importa che Erode ordini imperioso ai suoi soldati di ucciderla: lei è finalmente libera.
Salome in scena al Metropolitan Opera House fino al 24 maggio metopera.org