Ha quasi 100 anni e non ha perso nulla della sua infinita bellezza. Apollo di Balanchine, nella interpretazione di Taylor Stanley, al New York City Ballet, nella serata All Balanchine I, è un capolavoro di potenza divina composta in gesti precisi, stilizzati, minimi eppure efficacissimi.
George Balanchine (1904-1983), che lo ha creato nel 1928 per i Ballet Russes di Diaghilev, quando aveva solo 24 anni, collaborando per la seconda volta con Stravinsky, disse che proprio con questa coreografia aveva “trovato il coraggio di esprimere tutte le sue idee, di eliminare…. fino all’ultima possibilità inevitabile”. Il balletto, inserito nel repertorio del New York City Ballet dal maestro russo solo nel 1957 per l’interpretazione di Jacques d’Amboise, e poi ricreato nel 1979 per Baryshnikov, con l’eliminazione del prologo ed un finale diverso, è un classico assoluto.

Il sipario si alza su Apollo, in bianco contro il blu dello sfondo, la sua lira parte della composizione pittorica. E’ giovane, in cerca della sua essenza, così lo ha concepito Stravinsky e così lo mostra Balanchine. II suo primo assolo è mirabile, secondo Balanchine un dialogo con Zeus, di cui cerca l’approvazione. Incontra tre muse, sue sorellastre, le osserva. Calliope, la musa della poesia (Ashley Hod), Polimnia, del mimo (Dominika Afanasenkov), Tersicore, della danza (Unity Phelan). Si inginocchia di fronte a loro che gli mostrano cosa sanno fare, danza il suo secondo assolo, poi sceglie Tersicore e con lei si unisce in un meraviglioso pas de deux. Stanco, poggia la testa sulle mani unite delle Muse, ma per poco, Zeus lo chiama, ha spiegato Balanchine ai suoi interpreti, Apollo è pronto ad ascendere nell’olimpo, è diventato Dio.

Balanchine ha rivelato che questa è stata la sua creazione più autobiografica. Lui, che nel resto della sua carriera ha giocato con i passi, le note, i ritmi, per creare composizioni astratte, qui crea una storia. Da vedere e rivedere.
Taylor Stanley è un ballerino speciale. Potente, ma insieme lirico, disarticolato nel balletto contemporaneo, armonioso nel classico. Perfetto per il ruolo di Apollo che cerca e trova la sua divinità perché dotato di una potenza istintuale domata dalla precisione dei passi. Danzatore di colore, non binario, Stanley è espressione della contemporaneità della danza. L’anno scorso lo abbiamo ammirato nel dirompente pas de deux omosessuale con Ashton Edwards di The Times Are Racing di Justin Peck’s, qui rivela di più la sua versatilità. Ineccepibili le tre muse, come le altre prime ballerine della serata, proseguita con il Ballo della Regina su musica di Giuseppe Verdi, interpreti Tiler Peck e Joseph Gordon e altri 16 membri della compagnia, Tschaikovsky Pas de deux con Indiana Woodward e Andrew Veyette e infine la Chaconne su musica di Gluck dall’opera Orfeo ed Euridice con Isabelle LaFreniere, Peter Walker e 25 ballerini.

Bellissime le pirouettes di Indiana Woodward, lente, precise, misurate, morbide, velocissime le gambe di Tiler Peck (che è leggermente scivolata riprendendosi immediatamente ed è stata applaudita dal pubblico con ancora più calore) ma soprattutto sognante l’interpretazione del pas de deux della Chaconne di Isabelle LaFreniere. La sua danza è lirica, il corpo perfetto. Scivolando fra en dehors e en dedans con morbida precisione, spingendo gli arabesque al limite dell’infinito.
