Al Guggenheim di New York, A Poem for Deep Thinkers porta in scena Rashid Johnson con la sua più grande retrospettiva mai realizzata. Classe 1977, nato a Chicago, Johnson è tra le voci più riconoscibili dell’arte afroamericana contemporanea. I materiali che impiega – burro di karité, legno bruciato, ceramica, metallo, piante – non sono mai neutri. Diventano strumenti narrativi per affrontare questioni urgenti: chi siamo, come ci prendiamo cura di noi stessi e degli altri, quale spazio può occupare l’arte in un contesto segnato da fratture e disuguaglianze.
Il titolo della mostra viene da un verso di Amiri Baraka, poeta del Black Arts Movement. Ma il vocabolario visivo di Johnson è ampio: dentro ci stanno Baldwin e Basquiat, Coltrane e i VHS anni ’90, filosofia e musica, graffiti e pensiero nero. La mostra – curata da Naomi Beckwith e Andrea Karnes – lo racconta bene, tappa dopo tappa, lungo la spirale del museo.

Si parte dalle fotografie del South Side di Chicago, si attraversano video, scritte murali, collage, sculture, e si arriva a opere come Cosmic Slop (2008), fatta con sapone nero e cera, o le Untitled Bust in gres smaltato: volti interrotti, corpi segnati. Le serie Anxious Men e Broken Men, invece, mostrano teste ripetute, tese, quasi urlanti. Lo spettatore non guarda: viene guardato.
In fondo al percorso, c’è Sanguine, un’installazione fatta di vetro, acciaio, piante e un pianoforte verticale. Ogni venerdì e domenica qualcuno lo suona: Monk, Alice Coltrane, Nina Simone. Niente playlist in loop: musica viva, nel museo. Oltre all’esposizione, A Poem for Deep Thinkers si articola come una piattaforma pubblica. Ogni martedì c’è il Teen Tuesday, laboratorio gratuito per adolescenti. Il sabato, la Rotunda Stage si anima con performance live. Non esistono soglie, solo spirali: ogni evento, ogni attivazione, contribuisce alla costruzione collettiva della mostra.
