A prima vista, Perfection – il primo romanzo di Vincenzo Latronico tradotto in inglese e finalista all’International Booker Prize 2025 – si presenta come un racconto asciutto e calibrato sulla vita di una coppia di italiani espatriati a Berlino, Anna e Tom, entrambi freelance nel settore dei “contenuti”, impegnati a curare piante d’appartamento, relazioni aperte e una quotidianità fotogenica fatta di cibo, interni in affitto e immagini da condividere.
Il loro disagio, come la loro vita, è perfettamente organizzato: invisibile, ma costante; non deflagra, ma si deposita. La narrazione, costruita per blocchi tematici – lavoro, sesso, politica, amici, oggetti – evita la progressione classica in favore di una frammentazione interna che riproduce fedelmente la percezione contemporanea del tempo, del desiderio, del fallimento. L’immobilità dei protagonisti è specchio di un’intera condizione sociale: quella di chi ha tutto per essere felice e non riesce più a capire cosa voglia.
Ma è nel confronto in pubblico tra Vincenzo Latronico e Lauren Oyler, scrittrice e critica letteraria americana, andato in scena il 10 aprile all’Istituto Italiano di Cultura di New York in collaborazione con la New York Review Books, che il romanzo ha svelato qualcosa di più. Non solo nelle risposte, ma nei non detti, nelle esitazioni, nei punti in cui i due interlocutori sembravano sfiorarsi senza coincidere. Oyler, autrice di Fake Accounts, libro spesso accostato per tematiche e ambientazione a Perfection, ha incalzato Latronico con domande tecniche, quasi architettoniche, sul montaggio delle sezioni, sulla funzione dei tempi verbali, sulla scelta di non dare ai personaggi una dimensione psicologica autonoma. “Non mi interessava farli evolvere”, ha risposto l’autore. “Mi interessava mostrarli mentre ruotano su sé stessi, come in una simulazione”.

L’analogia con l’ambiente digitale – un mondo dove tutto può essere osservato, archiviato, curato, ma niente accade davvero – ha fatto emergere un altro nodo. Oyler ha chiesto se Latronico avesse avuto paura che il libro risultasse troppo derivativo, troppo debitore rispetto a opere precedenti sullo svuotamento della vita urbana. La risposta è stata secca: “No. Avevo paura che fosse troppo elegante. Che l’eleganza coprisse il vuoto invece di esporlo”. È qui che la conversazione si è fatta interessante: entrambi sembravano d’accordo nel rifiutare l’idea di “stile” come orpello, ma divergevano sul suo uso. Oyler tendeva a leggerlo come cifra critica; Latronico, piuttosto, come sintomo.
La differenza più evidente è emersa nel modo in cui i due parlavano del tempo. Per Oyler, Perfection è un romanzo costruito sul presente continuo, un presente permanente fatto di input e reazioni, come un social feed. Latronico ha corretto con cautela: “È vero, ma è anche un romanzo sul tempo non vissuto. Su ciò che si accumula e non si elabora. Su quello che resta in sospeso”. In quel momento è parso chiaro che ciò che il libro mette in scena non è tanto il presente, quanto il suo esaurimento. Oyler ha inoltre osservato come molti dei personaggi parlino inglese, ma in modo sbilenco, come se usassero una lingua non propria per affermare una soggettività posticcia. Latronico ha ammesso che l’inglese, nella sua versione scritta, è stato uno strumento per misurare l’autenticità del testo italiano: “Tradurre mi ha fatto vedere dove baravo. Dove scrivevo per sentirmi intelligente. Lì ho tagliato”. La conversazione si è conclusa con un accenno alla forma-coppia, non più come struttura affettiva ma come residuo narrativo: ciò che resta quando non si sa più chi si è, ma si sa con chi si dovrebbe essere. “Una coppia oggi è come un’inquadratura fissa”, ha detto Latronico. “Tutto accade attorno, ma la camera resta ferma”.