The New Art: American Photography, 1839–1910, in mostra al Metropolitan Museum of Art dall’11 aprile, si presenta come un archivio visivo che, attraverso un approccio tipologico, indaga la formazione dell’identità americana tra il 1839 e l’inizio del XX secolo. Con oltre 250 fotografie, molte delle quali mai esposte prima, l’esposizione offre al visitatore la possibilità di esplorare una storia che non si costruisce su eventi, ma su forme, attraverso un criterio curatoriale che privilegia la logica formale piuttosto che quella cronologica.
Volti e paesaggi, corpi seduti, mani appoggiate, abiti da lavoro e da festa compongono il tessuto iconografico della mostra. Tuttavia, più dei soggetti singoli, è la ripetizione a guidare la lettura: posture, relazioni spaziali, interruzioni e vuoti diventano gli elementi attraverso cui riconoscere e confrontare. Ogni fotografia è un esemplare, simile a una tavola botanica in un erbario visivo, e l’insieme costituisce un campo strutturato di osservazione. Il riferimento alle serie tipologiche tedesche è evidente: l’approccio è asciutto, misurato, intenzionalmente distante. Qui, la fotografia americana non è ancora spinta dall’urgenza del gesto autoriale, e il concetto stesso di “istantanea” risulta assente. Ogni immagine è il risultato di una decisione consapevole, di un tempo lungo, di una posa mantenuta. I soggetti non sono colti di sorpresa, ma si offrono con piena coscienza all’occhio meccanico della macchina fotografica.

Collezione William L. Schaeffer, in prestito al Metropolitan Museum of Art
Nella sequenza, i ritratti familiari si affiancano ai corpi dei defunti, la compostezza infantile convive con la presenza silenziosa delle comunità afroamericane, mentre la devastazione delle popolazioni native si presenta come una traccia non enfatica ma strutturale. Il tutto è restituito da una coerenza visiva che rinuncia al pathos in favore di una precisione dello sguardo.
Accanto ad autori noti come Josiah Johnson Hawes, John Moran, Carleton E. Watkins e Alice Austen, la mostra accoglie fotografie di autori anonimi o dimenticati, affiancando alla storia ufficiale una moltitudine di sguardi minori ma non meno significativi. Particolare attenzione è riservata alla rappresentazione della popolazione afroamericana che, dalla Guerra Civile all’inizio del XX secolo, utilizza la fotografia come strumento per sovvertire l’immagine imposta del sé. In questo processo, Frederick Douglass emerge come figura centrale, sostenendo la fotografia come diritto alla rappresentazione, come rivendicazione dell’esistenza iconica. In mostra, uomini e donne nere non sono oggetti dello sguardo altrui, ma soggetti della propria visione.

Collezione William L. Schaeffer, in prestito al Metropolitan Museum of Art
La stessa impassibilità caratterizza le immagini dell’America rurale, delle città in espansione, dei territori colonizzati. Le fotografie non raccontano, ma isolano: edifici, campi coltivati, strade, corpi, tutto è osservato con la stessa distanza analitica. Le grandi fratture della storia americana – la distruzione delle comunità native, la schiavitù, la guerra civile, la crescita urbana – non vengono enfatizzate, ma messe in serie, restituite come dati visivi in una sintassi priva di retorica.

Collezione William L. Schaeffer, in prestito al Metropolitan Museum of Art
A chiusura del percorso, una selezione di macchine fotografiche dell’Ottocento funge da complemento metodologico: strumenti che non sono solo reliquie tecniche, ma veri e propri dispositivi culturali, capaci ancora oggi di evocare la complessità del gesto fotografico alle sue origini. Jeff L. Rosenheim, curatore della mostra, sottolinea come queste immagini – “rivali della grande letteratura dell’epoca” – abbiano contribuito a fondare un linguaggio della visione che, pur nei suoi mutamenti, è ancora attivo nel presente: la fotografia come scrittura, come metodo, come costruzione sistemica del reale.