Nel 1943, durante l’occupazione tedesca del Nord Italia, Renata Baraldi – per tutti semplicemente “Tata” – rileva un negozio di tessuti nel centro di Mantova. In apparenza, un semplice passaggio di proprietà, uno dei tanti che segnano quei tempi incerti. Ma dietro il gesto si nasconde molto di più: un atto di protezione, un moto di cura, forse anche una forma silenziosa di coraggio. Tata lo fa per conto di una famiglia ebrea in fuga, ma soprattutto lo fa per amore — amore per le persone, per la memoria, per la vita che resiste anche quando tutto intorno crolla. Questa vicenda, ispirata a fatti reali, è al centro del musical Il negozio sotto il portico, andato in scena il 31 marzo all’Istituto Italiano di Cultura di New York. I testi sono firmati da Cristina e Robert Farruggia, le musiche originali portano la firma di Robert Farruggia, con la direzione musicale di Nick Wilders.

Foto di Terry Sanders.
La storia prende forma con discrezione, lasciando che siano le sfumature a guidare l’emozione, più che i gesti eclatanti. I personaggi si muovono tra le corsie della bottega e i vicoli della città, attraversano le scene parlando in italiano e in inglese, si scontrano, si cercano, a volte si perdono, ma spesso si ritrovano, tenendosi stretti nel caos di un tempo spezzato dalla guerra. Tata (Ashley Brown) accoglie, protegge, ma non sempre comprende fino in fondo. Luca (Nathaniel Hackmann), reduce di guerra, porta addosso ferite fisiche e morali, e cerca un modo per ripartire. Laura (Lyda Jade Harlan) ama Davide (Ben Diamond), e quel sentimento, vissuto in un’epoca dove anche l’amore può diventare pericoloso, si trasforma in una forma quieta ma decisa di insubordinazione.

Foto: Terry Sanders
Accanto ai protagonisti, prende forma un coro di presenze. Pino (Everett Sobers), giovane e irrequieto, si lascia sedurre dalla retorica fascista. Beatrice (Joy Hermalyn), madre di Tata, cuce in silenzio, lasciando che siano i gesti a parlare. Leone (Drew Seigla) e Rachele (Lucy Anders), genitori di Davide, affidano il negozio a Tata prima di tentare la fuga verso la Svizzera. C’è chi sceglie di denunciare, chi di proteggere. E ogni scelta è carica di conseguenze. In questa trama di azioni e silenzi, la musica si insinua tra le voci, creando un secondo livello di narrazione. Canzoni, canti popolari, armonie originali compongono un paesaggio sonoro che accompagna — e a volte contraddice — la parola. Anche Bella Ciao compare, sussurrata più che cantata, e porta con sé il peso della stanchezza e dell’assenza.

Foto: Terry Sanders
“Non volevamo ricostruire fedelmente un contesto storico,” spiegano Cristina e Robert Farruggia, “ma usare il passato per avvicinarci al presente. Chiederci – e chiedere al pubblico – cosa avremmo fatto, cosa faremmo oggi. Quanto libertà c’è, ancora, per piccoli atti di responsabilità individuale”. È questa la direzione dello spettacolo: non disegna confini netti tra buoni e cattivi. Chi tradisce ha una voce, chi resiste ha paura, e perfino Tata — figura che sembra reggere tutto — mostra le sue crepe. Il finale è un’immagine semplice: fiori di loto che tornano a fiorire nel lago. Dice che qualcosa può ancora nascere, che, anche in tempi duri, qualcuno continua a credere in qualcosa.