La porcellana, si diceva, era roba da salotti borghesi. Da donne annoiate, con le gambe accavallate e una tazza di tè tra le dita. Un lusso frivolo, femminile. Poi è arrivata Monstrous Beauty: A Feminist Revision of Chinoiserie, al Metropolitan Museum di New York, e ha stravolto ogni cosa. Nel senso più concreto e simbolico del termine. Curata da Iris Moon, storica dell’arte e responsabile della collezione di ceramiche del Met, la mostra — aperta al pubblico dal 25 marzo — presenta circa 200 opere, dal XVI secolo a oggi: figurine, pannelli, vasi, dipinti, ma anche installazioni contemporanee di artiste come Candice Lin, Lee Bul, Yeesookyung e Patty Chang. È un viaggio femminista e decoloniale nel cuore della chinoiserie, il linguaggio decorativo nato in Europa nel Settecento, che ha reinventato (e spesso distorto) l’immaginario cinese secondo i gusti e i desideri dell’Occidente.
Durante la rivoluzione dei consumi, la porcellana divenne simbolo di desiderio: bianca, liscia, delicata e costosa. Le donne europee, ormai protagoniste del mercato come acquirenti, collezioniste e curatrici di gusto, iniziarono a esibirla, abitarla, renderla parte del quotidiano. Ma fu proprio questa nuova autonomia femminile, fatta di estetica e scelta, a suscitare ansie e paure.

Un esempio emblematico è Maria II d’Inghilterra. Non lasciò un erede al trono, ma riempì le sue stanze di ceramiche orientali, tessuti preziosi e pannelli laccati. La porcellana divenne una sorta di estensione del suo corpo e della sua regalità: una presenza diffusa, brillante, decorativa ma potente. In contrasto con l’uso francese della chinoiserie come simbolo di potere assolutista, Maria ne fece uno strumento personale e femminile di affermazione. Ma l’Oriente rappresentato nei decori non era reale: era una costruzione immaginaria, progettata per soddisfare la fantasia coloniale dell’Europa. Dietro l’eleganza delle superfici si celava un impianto culturale volto a rendere l’esotico familiare, piacevole, innocuo.
Uno degli oggetti più emblematici della mostra è uno specchio del 1760, decorato con una figura femminile in abito manciù dipinta al rovescio: feticcio, souvenir, simbolo di un’identità riflessa e deformata. Le figurine in porcellana del XVIII secolo — divinità, madri, attrici, mostri in miniatura — compongono una galleria mutevole e teatrale della femminilità asiatica. Caricaturali e a tratti inquietanti, anticipano gli stereotipi contemporanei della donna asiatica come docile, decorativa, disponibile.
I vasi di Yeesookyung, realizzati con frammenti di porcellana rotta e ricuciti con l’oro secondo la tecnica giapponese del kintsugi — che celebra le crepe come parte della storia dell’oggetto, anziché nasconderle — diventano corpi imperfetti ma bellissimi. Patty Chang, con Abyssal, presenta un lettino da massaggio in porcellana grezza, forato e destinato a essere affondato nel Pacifico dopo la chiusura della mostra. Sott’acqua, il tavolo diventerà una base per la crescita del corallo. Da oggetto pensato per il sollievo fisico, si trasforma in memoriale sommerso del lavoro invisibile e spesso sfruttato delle donne asiatiche impiegate nelle spa, evocando in particolare le vittime della sparatoria di Atlanta del 2021.

Il tè, simbolo per eccellenza della chinoiserie, attraversa l’intera mostra. Da bevanda esotica si è trasformato, in Europa, in emblema di civiltà e disciplina domestica. Le donne, incaricate di coltivare quest’universo di buone maniere, sono diventate inconsapevoli protagoniste di un’estetica che al tempo stesso le celebra e le controlla. La mostra si chiude con una riflessione sull’eredità visiva e culturale della chinoiserie nel XX secolo e oltre. Le donne asiatiche moderne, soprattutto nei media americani, si sono trovate a confrontarsi con immagini che fondevano femminilità e lusso coloniale. Cinema e fotografia hanno perpetuato queste fantasie, ma sono anche diventati strumenti per criticarle e sovvertirle.