Se pensavate di aver visto tutto dai biopic musicali, Better Man vi farà ricredere. Il film, in uscita negli Stati Uniti il 25 dicembre e in Italia il primo gennaio, è una provocazione artistica: la vita di Robbie Williams è narrata attraverso una scimmia in CGI, creata dai maghi della Weta Digital, celebre per i suoi lavori in Il Signore degli Anelli. Il regista Michael Gracey, già apprezzato per The Greatest Showman, abbraccia questa scelta visionaria, portando sul grande schermo un musical che mescola alti e bassi, canzoni indimenticabili e una dose inaspettata di introspezione.
“Mi sono sempre visto come una scimmia. Mi portavano sul palco per esibirmi, proprio come una scimmia in uno zoo, e io ero completamente fuori di testa”, racconta l’artista durante la sua visita a Roma in occasione della prima nazionale. Nel film, vediamo una scimmia giovane che incarna il Robbie dell’infanzia, una scimmia adolescente durante gli anni dei Take That e una scimmia adulta nei momenti di gloria e disperazione della sua carriera da solista. Il resto del cast, curiosamente, è umano, creando un contrasto potente e surreale.

Il film si apre a Stoke-on-Trent nel 1982, dove un giovane Robbie affronta i bulli della scuola con la determinazione di non diventare “un nessuno”. La figura del padre, cabarettista e primo mentore, getta le basi per il tema centrale del film: cosa significa essere Robbie Williams? Come in altri biopic musicali recenti, come Rocketman o Bohemian Rhapsody, il film esplora la dicotomia tra l’uomo e l’artista, tra il successo pubblico e il vuoto privato. Robbie affronta i demoni della dipendenza, la solitudine della ribalta e il bisogno incessante di approvazione. “La fama è come una bella fotografia,” dice Williams, “ma spesso nasconde il caos che c’è dietro”.
A proposito di fatti (e personaggi) già largamente raccontati, l’audizione per i Take That è il primo grande turning point. Un semplice occhiolino gli garantisce un posto nel gruppo, destinato a diventare un fenomeno di massa negli anni ’90. Tuttavia, dietro al successo si nascondono tensioni, soprattutto con Gary Barlow, il principale paroliere del gruppo. Robbie, con il suo stile di vita festaiolo e ribelle, si sente stretto nei rigidi confini della band. Alla fine, la rottura diventa inevitabile, spingendolo verso un percorso solista alla ricerca della sua identità artistica.

Gracey non mette in primo piano la musica che però pulsa silenziosamente in tutto il film. “Abbiamo fatto scelte musicali fuori dagli schemi,” racconta Robbie. “L’idea era intrecciare la narrazione con la musica in maniera naturale. È stato un lavoro appassionante perché ogni brano doveva sembrare una parte essenziale della storia”. Le sue canzoni non sono semplici intermezzi musicali, ma vere e proprie chiavi di lettura emotive. Feel accompagna il dolore del giovane Robbie per l’abbandono del padre, mentre Come Undone fa da sfondo ai suoi momenti più autodistruttivi. She’s the One racconta la sua complicata relazione con Natalie Appleton degli All Saints, mentre Angels arriva in un momento di redenzione personale e artistica. Non mancano momenti più ironici, come quando la cover di Relight My Fire diventa il simbolo di un pasticcio sul palco che segna, in modo quasi poetico, la fine dell’era Take That. E poi c’è la scena memorabile in cui la band si lancia in Rock DJ per festeggiare il primo contratto discografico.
Il film funziona al meglio nei momenti in cui si concentra sulle dinamiche familiari di Robbie Williams. Il suo rapporto con figure come la madre e la nonna che definisce “fari di stabilità e affetto nella sua vita”, e quello conflittuale con il padre, che Robbie ha cercato di compiacere nonostante la sua lunga assenza. e l’amore per se stesso, che il protagonista deve riscoprire attraverso un percorso di guarigione.
In un’epoca satura di biopic musicali, Better Man sceglie una strada tutta sua. Le profondità psicologiche di Robbie Williams non vengono dissezionate con lunghi monologhi o sguardi intensi, ma incarnate—letteralmente—nei gesti, nelle azioni e nelle parole di una scimmia. resa straordinariamente umana grazie alla tecnologia del motion capture e al talento fisico di Jonno Davies. “Voglio che il mondo mi veda per ciò che sono, non per l’immagine che si è creato di me”, spiega Williams. “Oggi, con i social media, chiunque può essere esposto a uno scrutinio pubblico. Viviamo in un’epoca in cui la responsabilità verso chi è più fragile è fondamentale”.
Non tutti apprezzeranno Better Man. La scelta della scimmia, una presenza potente e carismatica, potrebbe sembrare grottesca a chi si aspetta una narrazione più tradizionale. Tuttavia, questa figura simbolica è impeccabile nel rappresentare il complesso rapporto di Robbie Williams con il pubblico: una relazione di fragile dipendenza, nutrita dal bisogno incessante di attenzione e conferme. Al tempo stesso, rappresenta quel lato di Robbie che riflette un adolescente eterno, incapace di lasciarsi alle spalle un certo infantilismo emotivo, ma che proprio in questa vulnerabilità trova la sua autenticità.