“Se fossi andato in prigione non avrei potuto raccontare quello che succede in Iran, la situazione in cui ci troviamo noi iraniani. La mia missione invece è proprio questa.”
Il regista Mohammad Rasoulof parla, con l’aiuto di un interprete, in video call dalla Germania dove si è rifugiato dopo essere fuggito dall’Iran la scorsa primavera. Su di lui pesa una condanna a otto anni di carcere, frustate, la confisca delle sue proprietà, una multa: tutto quello che i giudici hanno potuto comminare per aver girato senza permessi, tentato di screditare con il film il governo iraniano, mostrato attrici senza hijab. Ma proprio dei giudici, del sistema giudiziario opprimente e corrotto della repubblica iraniana parla The seed of the sacred fig, (Il seme del fico sacro) il suo ultimo lavoro accolto a Cannes da 12 minuti di applausi e premio speciale e ora candidato dalla Germania agli Oscar come migliore film straniero.
The seed of the sacred fig è centrato su un avvocato, Iman, interpretato da Missagh Zareh, che dopo venti anni è finalmente promosso investigatore, il gradino che precede la nomina a giudice. Avremo una casa più grande con le stanze per entrambe le ragazze, assicura lui alla moglie comunicandole la promozione. E lei, interpretata dall’attivista anti hijab Soheila Golestani, gli chiede: anche la lavastoviglie? Le nostre mani si stanno rovinando. Si le promette lui, con il tempo. Ma questi confort hanno un prezzo. Iman deve firmare le condanne a morte di cittadini accusati di svariati crimini senza poter neppure visionare le carte, lo chiedono i superiori, gli viene detto, niente discussioni, pena il licenziamento. E allora addio appartamento e lavastoviglie. Lui obbedisce e la rivolta degli studenti dopo la morte della ventiduenne Mahsa Amini, arrestata dalla polizia morale per non aver indosso l’hijab, gli fornisce la convinzione di essere nel giusto.
Ed è qui che il film da pura fiction diviene un documento imperdibile di realtà, perché Rasolouf inserisce i filmati della repressione girati con i telefonini dagli stessi studenti e fatti girare clandestinamente fra i rivoltosi. Quei filmati, sconvolgenti per lo spettatore, lo sono anche per le figlie del funzionario che prendono coscienza di una realtà diversa da quella che racconta la televisione o il padre, e iniziano la loro personale rivoluzione che porterà ad un finale liberatorio. Le ultime immagini sono di speranza: filmati veri delle ragazze iraniane in strada che sventolano i loro hijab nell’aria.
Il vento della libertà nella realtà però in Iran è durato poco, il regime non ha ceduto, anzi. Tre attrici del film, Niousha Akhshi, Mahsa Rostami e Setareh Maleki, che interpretano i ruoli delle figlie e di una amica, sono dovute fuggire anche loro in Germania per evitare l’arresto per essersi mostrate senza hijab. Pochi giorni fa si è tolto la vita buttandosi da un ponte il giornalista Kianoosh Sanjari, per protesta contro la detenzione di Fateme Sepehari, Nasreen Shakrami, Toomaj Salehi and Arsham Rezaei, arrestati proprio durante le proteste per la morte di Mahsa Amini nel 2022.
“Volevo raccontare la realtà dell’Iran ma insieme creare un ritratto psicologico di quelli che amministrano la giustizia: gli investigatori, gli interrogatori, i giudici -dice Rasolouf – Mi sono chiesto se queste persone hanno un passato diverso dal mio per aver fatto questa scelta. Era importante per me capire come una persona possa gradualmente perdere la sua umanità. Ci ho pensato tanto in questi ultimi 15 anni e finalmente ho trovato il modo di trasferire queste mie riflessioni in un film.”
Rasoulof quegli interrogatori e quei giudici li ha conosciuti personalmente: è stato due volte in prigione, parte del tempo in isolamento. La prima volta nel 2010 per aver filmato senza permessi la seconda per A Man of Integrity del 2017 ritenuto un film di propaganda contro il sistema. Gli è stato anche ritirato il passaporto e non è potuto andare a Berlino a ricevere il Leone d’oro per There is no evil nel 2020. L’idea di The seed of the sacred fig gli è venuta proprio in carcere dove si trovava insieme al regista Jafar Panahi.
“In prigione – dice – le notizie circolano nonostante la censura”. Così ha seguito la storia di Mahsa Amini che è al centro del film. “La televisione sempre accesa ci dava l’idea di quello che succedeva pur sapendo che la verità era lontana da quello che veniva raccontato. Ma la verità la scoprivamo man mano che arrivavano gli studenti arrestati per le proteste e vedevamo le guardie cambiare comportamento, diventare sempre più tese.”
Quando è uscito nel 2023, pur sapendo che rischiava una nuova condanna, ha iniziato a girare. In segreto. “Il primo ingrediente di questo film sono state le limitazioni. Dovevo lavorare senza che si venisse a sapere. Senza rischiare che mi arrestassero prima di finire. Dovevo mantenere alta la concentrazione e mantenere la sicurezza del cast. Ma dopo quattro settimane di riprese è arrivata la condanna. Ho fatto appello per guadagnare tempo e intanto ho limitato ulteriormente la crew, usato il minimo dei mezzi tecnici e diretto a distanza. Lavorare così significa avere persone intorno incredibilmente capaci di seguire le indicazioni.”
Il film lo ha terminato ma l’appello lo ha perso. E ha dovuto rapidamente decidere se rimanere e tornare in carcere o fuggire. Ha spento ogni oggetto elettronico e preso la strada della montagna, a piedi.
Ora la sua missione è far vedere il film più possibile, soprattutto in Iran. “I film circolano clandestinamente – dice – i giovani hanno il loro network, stanno resistendo con grande coraggio, stanno facendo la differenza. In passato la vecchia generazione dettava la linea e tutti ascoltavano ora i giovani non ascoltano più e influenzeranno la vecchia generazione.”