Il film Napoli-New York si aggancia al dibattito culturale sulle migrazioni e le trasformazioni delle identità collettive, temi che attraversano epoche e frontiere. Queste riflessioni non sono una novità: già nel dopoguerra, il desiderio di riscatto dei popoli segnati da conflitti e miserie aveva preso slancio, ma oggi, in un’epoca segnata dai movimenti globali per i diritti umani e contro le disuguaglianze, trovano una nuova urgenza e profondità.
In questo contesto, Gabriele Salvatores recupera un “trattamento-sceneggiatura” dimenticata di Federico Fellini e Tullio Pinelli per raccontare la storia di due bambini napoletani, Carmine e Celestina (Antonio Guerra e Dea Lanzaro), che negli anni ’40 decidono di fuggire dalla povertà salendo clandestinamente su una nave diretta a New York. Viaggiano nascosti, come tanti altri prima e dopo di loro. Ma cosa trovano in quel microcosmo fatto di stive e di sogni sospesi? È una domanda che il film non risolve subito, lasciandoci il tempo di riflettere su cosa significhi davvero salpare verso l’ignoto.

Con Napoli-New York, al cinema in Italia dal 21 novembre, Salvatores ripercorre una vecchia strada: partire dalla realtà, ibridandola con il registro poetico della fiaba. “Non volevo una Napoli da cartolina”, ha detto il regista. E si vede. Nel primo film interamente in napoletano del regista, rigorosamente senza sottotitoli – “non è un dialetto, è una lingua”- la città è viva, fatta di persone che portano addosso le cicatrici della guerra, ma anche la determinazione di non arrendersi. È una Napoli che si muove, che soffre e che spera, proprio come i suoi protagonisti. Carmine e Celestina non sono soli in questa storia: portano con sé il peso di una città intera, che sembra spingerli avanti e trattenerli nello stesso momento.
E poi c’è New York, o almeno l’idea di New York. Spiega Salvatores: “Fellini, che non aveva mai messo piede negli Stati Uniti, immaginava una città fatta di luce, di promesse sussurrate, di volti che raccontano mille storie che rifletteva lo spirito ottimistico del dopoguerra. Invece sappiamo che il sogno americano può trasformarsi facilmente in un incubo”. La New York che vediamo sullo schermo è tanto accogliente quanto spietata, un labirinto che mette alla prova i due piccoli protagonisti a ogni passo.
Il cuore del film sta qui, in questa domanda che resta sospesa: cosa significa far parte di qualcosa? Di un luogo, di una cultura, di una storia? “Una volta eravamo noi i migranti, gli stranieri, i diversi”, riflette il regista. E il film diventa un ponte, un filo teso tra passato e presente, che ci ricorda chi siamo stati e ci invita a guardare con empatia a chi oggi rischia tutto per un altrove. Forse, sembra suggerire, è proprio l’umanità – con tutte le sue contraddizioni e il suo coraggio – la bussola che ci aiuta a trovare la rotta in un mondo che cambia. Nel cast anche Pierfrancesco Favino nei panni del capitano della nave diretta a New York.