Quando, nel 2008, lo storico Shlomo Sand – rampollo di una famiglia polacca salvatasi dalla shoah, emigrato a Giaffa nel 1948 – pubblicò in ebraico in Israele L’invenzione del popolo ebraico (con identico titolo), sollevò un clamore che rasentò lo scandalo. Nonostante la mole (574 pagine nell’edizione italiana del 2024 dall’editore Mimesis), il volume restò però nella classifica dei più venduti per quasi cinque mesi. In una stagione d’Israele non ancora stravolta dal fondamentalismo religioso e dal realismo di Netanyahu (Bibi diventa primo ministro l’anno dopo), il libro fu occasione di un dibattito onesto sulle radici e il destino dello stato fondato nel 1949 in Palestina e su come si fosse davvero espresso, al di là di miti e contromiti, il percorso di un popolo che a un certo punto della sua vicenda fu chiamato giudeo da taluni, ebraico da altri.
L’ebreo e israeliano Sand spiegò ai connazionali che, reperti archeologici e documenti storici alla mano, tante convinzioni che avevano ricevuto in eredità dagli avi, o che erano state loro instillate da scuole e università religiose o laiche, mancavano di fondamento, e che le cose erano andate in un modo sufficientemente diverso da richiedere un’opera di appassionato e coraggioso revisionismo. Da storico, esperto dei drammi umani e delle controversie politiche che la demolizione di miti può ingenerare, l’autore non intendeva mettere in dubbio la legittimità di Israele ad esistere, né coltivare negli ebrei d’Israele i sensi di colpa che si annidano nella parte più responsabile della comunità rispetto al destino dei palestinesi. Proponeva un’operazione di verità che, su basi in larga parte rinnovate, contribuisse a dare maggiore autenticità e autorevolezza all’edificio identitario sul quale il movimento sionista prima, lo stato d’Israele dopo, avevano trovato legittimità per le loro rispettive fondazioni.
Per arrivare a fornire di credibilità quella che l’autore chiama “controstoria”, il libro ha previsto un’ampia fase introduttiva nella quale mostra che i concetti di nazione, popolo, etnia siano ovunque manipolati, evidenziando come disincrostarli dai miti politici dei quali sono rivestiti sia operazione difficile e generatrice di controversie. I “popoli”, le “sovranità popolari”, l’ “uguaglianza dei cittadini”, e simili subiscono veri e propri processi di “creazione” nel corso della storia, da parte di élite interessate, siano esse economiche, culturali, religiose, militari.
Nel caso di Israele, all’inizio della vicenda di mistificazione/invenzione/creazione sarebbe stato messo Dio “creatore della nazione” e di conseguenza della legittimità, per gli ebrei, di considerarsi “popolo”. Sand cita l’ebreo Spinoza del Trattato teologico-politico (“… il Pentateuco non fu scritto da Mosè, ma da un altro che visse parecchi secoli dopo di lui”) e documenta i limiti storici delle Antichità giudaiche del pio ebreo Giuseppe Flavio. Va precisato che il tentativo di associare Dio ai propri destini non è un’esclusiva giudaica: il III Reich germanico giustificò il suo razzismo e suprematismo, che si esprimeva in particolare nell’antisemitismo e nell’esclusivismo ariano, con un concetto non molto dissimile, benché non potesse ricorrere alla Bibbia per certificarlo.
Il punto centrale della tesi esposta da Sand è che l’ebraismo da sempre è religione e cultura variegata transnazionale, ma solo a un certo momento viene “inventato” come nazione per un “popolo errante” in cerca dell’opportunità per costituirsi in stato. La posizione abbatte nelle premesse il mito del “ritorno” a Sion, fatto derivare da una Bibbia che in realtà sarebbe stata utilizzata da rabbini, religiosi ortodossi e intellettuali (da Heinrich Graetz, ad esempio, nella seconda metà dell’ottocento) per conferire contenuti storici a un libro sacro, reso “mitostorico”, in violazione della sua sacralità metastorica. L’autore ha buon gioco nel rilevare quanto, da quelle premesse, sarebbe stato breve il passo verso la trasformazione dell’esclusivismo ebraico in nazionalismo razzista, come effetto, ad esempio, dei principi di immutabilità e inalienabilità che gli divengono consustanziali, e della definizione dell’ebraismo come “culto storico nazionale sviluppatosi da tradizioni familiari” (Moses Hess).
Nella parte conclusiva, con coraggio condito di pessimismo, l’autore affronta una per una le conseguenze, in termini di leggi che regolano la vita di Israele, dell’errore di prospettiva che il libro si affatica a denunciare, sino alla domanda chiave, che riguarda il futuro dei popoli non di fede ebraica della regione. L’invito è a smetterla di isolarsi ed escludere, a riprendere il sogno ebraico aprendolo ai non ebrei, anche per evitare che si trasformi in incubo. Le orribili pagine che si stanno scrivendo in Medio Oriente in questi giorni confermano i timori di Shlomo Sand.