“Noi New York l’avevamo sognata, come la Cina, il Canada, l’Australia, un po’ tutto il mondo. Avevamo fatto domande di borse di studio e lettorato dappertutto”. Invece Luciana Capretti e Stefano Trincia alla fine proprio a New York sono approdati, quasi per caso, lei laureata in lettere con una tesi su Isadora Duncan, lui in slavistica carico di lingua ceca, inglese allora scarso, soldi ancora meno ma pronti a fare i salti mortali, e ci sono rimasti non per un mese ma per un bel pezzo di vita. Tredicesima strada (Edizioni Galaad) racconta della città e di un grande amore; è un memoir intessuto di lucida follia, scritto da Capretti in prima persona e intervallato da brani delle memorie che Trincia su quegli anni ha scritto, in un preciso momento della sua vita.

Erano due ragazzi all’inizio degli anni Ottanta, sospesi fra attivismo di sinistra e voglia di conoscere l’America, irresistibile attrazione per i cliché che scopriranno veri (La Grande Mela, the city that never sleeps) e ancora di più per la città vera, lercia, caotica, ricca, miserevole e splendente, palcoscenico di varia umanità fra la comunità degli italiani, le sue molteplici popolazioni, la sua galleria di personaggi improbabili, fin dall’inizio: “C’era la neve. Tanta e sporca. Cumuli luridi sui bordi delle strade misti a fango, urina, pezzi di giornale… e c’era un’umanità stracciata”. La lingua di Capretti (Ghibli, Tevere, La Jihad delle donne), a tratti rutilante e nostalgica, divertente e divertita, si immerge in quell’universo picaresco: fra stanze in prestito, traslochi con un materasso arrotolato, ricerca di mille lavori, colpi di fortuna, la meraviglia della cultura in libero accesso al Lincoln Center, i trucchi per sopravvivere, viaggiare gratis, telefonare a casa, “stuccarsi” lo stomaco: “Se non ti potevi permettere un tavolo vero o delle sedie sane, potevi comunque addormentarti con l’Hägen-Dasz”; passo passo, pezzo a pezzo nella scalata verso una vita ‘stabile’.
La scoperta dell’Hägen-Dasz è stata per tanti un rito di passaggio. In quegli anni, per chi arrivava dall’Italia dove i mall non esistevano, i supermercati avevano tre scaffali, i negozi chiudevano tutti all’ora di pranzo e le macchine non avevano l’aria condizionata, sbarcare a New York era come piombare su Marte. Tredicesima strada è anche la storia dell’amore di tutti i giovani italiani di allora per la città attraente come la lampada per le falene; sporca e caotica ancora allora sì, ma vitale, palpitante e diversa, e ovviamente, c’è bisogno di dirlo? piena di opportunità inimmaginabili. Dei tanti che sono andati, qualcuno è tornato indietro dopo poco, altri sono rimasti per sempre, trapiantati; altri ancora, come Trincia e Capretti, sospesi fra i due mondi, un po’ di qua un po’ di là.

Per tutti noi di quella generazione che hanno frequentato New York, c’è tanto che risuona in queste pagine; ma le avventure di Stefano e Luciana, “la coppia” come li chiamavano (“In quell’universo di giovani che inseguivano il loro sogno americano a New York, eravamo gli unici sempre insieme, ufficio, casa, feste”), appartengono a loro. I primi lavori, la ricerca del dottorato, infine l’approdo per tutti e due al giornalismo, in un’era in cui la Rai Corporation a New York era una potenza e la figura del “corrispondente” ancora esisteva con contratti fissi e prebende. Sfilano i personaggi di una saga favolosa che popolano la città, Paolo Frajese e Louis Falco, Maria-Theresa Duncan e Franca Pironti Lally, Renato Pachetti e Ferruccio di Cori, e ancora gli amici più o meno ospitali e gli incredibili inventori di espedienti per trovare un rifugio notturno o una scrivania da lavoro negli studi Rai.

Cose che i due hanno raccontate tutta la vita, quasi “una commedia di sicuro effetto” per intrattenere gli amici, “infinite volte, in capitoli, addende, aneddoti, dialoghi romanzati, interrotti, ripresi, pezzi che si aggiungevano, si sottraevano a seconda dell’umore e del pubblico… Cosa facciamo: gliela raccontiamo? Da dove cominciamo? Vale la pena? O gli diamo una versione breve? E poi uno dei due non resisteva e iniziava, e l’altro protestava: ma no! Ancora! E rassegnato si accomodava ad ascoltare. Ma solo per poco, perché presto il particolare dimenticato, il punto di vista diverso obbligava a intervenire: no, non era così, non gli hai detto…”
Perché questa storia però doveva essere scritta adesso, il lettore lo scoprirà solo alla fine, seguendo Luciana nelle sue Mille e una Notte e incontrando Stefano – per chi l’ha conosciuto l’amico più divertente, dissacrante, appassionato e intellettualmente onesto che possa esserci. Un libro coinvolgente per chi ricorda, ma commovente per tutti, seguendo il filo accorato dei pensieri.