“Io non so proprio perché si ostinino a chiamarmi Simbad il marinaio. Io non so nulla di navi, nodi e vele. Sono un mercante”. Comincia così il racconto a fumetti di Hugo Pratt, pubblicato a puntate nel 1963 sul Corriere dei Piccoli. È un momento cruciale nell’epopea del maestro di Malamocco. La lunga esperienza argentina, cominciata nel ’49 con l’allegra brigata dei ragazzacci che faceva baldoria sui tetti veneziani, è ormai alle spalle. La frenesia della giovinezza si è incanalata nell’età adulta: dopo una parentesi londinese e negli Usa, Hugo torna a casa. Ha 36 anni e fama transoceanica. E pure se le strette calli della laguna non somigliano alla pampa, lì ritrova i vecchi amici, la famiglia, le botteghe, i piccoli locali, soprattutto le corti sconte dette arcane.
Ce n’è abbastanza per lasciarsi cullare dolcemente, ma non è quello il suo destino. Occorre un nuovo inizio, l’avventura lo chiama. Trasloca a Milano nella redazione del Corrierino dove incontra lo sceneggiatore Mino Milani. Assieme rielaborano i romanzi di Stevenson: L’isola del tesoro, Il ragazzo rapito. Hugo rivisita il mito dell’Odissea (sui testi di Franca Ongaro, sorella dello scrittore Alberto e moglie dello psichiatra Franco Basaglia) e Le fatiche di Ercole, finché Le avventure di Fanfulla coincidono nel ’67 con un brusco stop. Il rapporto fra lui e la testata si interrompe.
Il motivo? Pratt è troppo bravo, troppo innovativo, troppo tutto per aderire ai canoni rigidi di un giornale destinato solo ai ragazzi: la sua opera si rivolge a un pubblico che non ha distinzioni generazionali. È tempo di issare le vele per l’ennesima volta. Parte per Genova, chiamato dall’editore Florenzo Ivaldi che sposa integralmente i suoi progetti: la rivoluzione è alle porte. Sta per nascere il graphic novel incarnato da Una ballata del mare salato, l’epifania di Corto Maltese — Une vie romanesque, cioè una vita romantica: è il titolo della sezione attualmente a lui dedicata al Centro Pompidou di Parigi, nella più grande mostra sulla letteratura disegnata mai realizzata.

Dal periodo fecondo al Corriere dei Piccoli riemerge ora un Simbad ancora attualissimo, privo delle didascalie di Milani, stampato da Cong in formato di piccolo album orizzontale e trasformato nella forma dal collaudato tandem Marco Steiner & Fabrizio Paladini, autori dei testi affiancati ai disegni. Con in più le coloriture di Patrizia Zanotti, tornata felicemente al mestiere degli esordi grazie al digitale: curatrice dei diritti dell’opera di Pratt e sua storica compagna di viaggio, era stata arruolata per curarne le tavole tanto tempo fa, quando studiava al liceo.
Così ecco un Simbad molto diverso dal vecchio — riduzione illustrata da vignette inserite in una griglia fissa — e va detto che il restyling funziona eccome. La crostata di crema e frutta è stata scomposta senza perdere nulla del sapore originario, infornata con l’aggiunta di un ingrediente che ne costituisce il grimaldello letterario: la presenza di Sherazade, affabulatrice che ammalia il sanguinario sultano Shahriyar narrando — notte dopo notte, per Mille e una notte — le prodezze e i rovesci del protagonista. È proprio l’arte di raccontare che le salva la vita, appassionando e redimendo l’interlocutore che finirà per sposarla, previa l’abiura delle nefandezze maschiliste nei confronti delle donne-schiave possedute e trucidate.
Tutto ruota comunque attorno alle peripezie di Simbad. Un picaro impenitente, furbo e coraggioso, globetrotter ante litteram. Parente stretto del Gulliver di Jonathan Swift e del Saturnino Farandola di Albert Robida, del navigatore arabo Ibn Battuta e dell’esploratore francese Louis-Antoine de Bouganville. Affine a due famosi viaggiatori immobili: Giovanni Battista Ramusio ed Emilio Salgàri. Un tipo capace di mettere in gioco le proprie ricchezze come Phileas Fogg che gira il mondo in 80 giorni, oltreché cacciaballe alla maniera del Barone di Münchausen che vola a cavalcioni di una palla di cannone.
Perché il nostro Asfar Sindibad è un po’ Ulisse davanti a Polifemo e un po’ Brancaleone senza crociate, conditi in salsa mediorientale: simbolo dell’avventura ed epigono dei marinai musulmani che partivano da Bassora per solcare con le mercanzie l’Oceano Indiano fino a Ceylon, l’arcipelago della Malesia, le terre lontane oltre l’India. Lui non si definisce marinaio, è vero. Ammette però di aver “attraversato mezzo mondo, conosciuto gente strana e incontrato animali mostruosi, visto meraviglie delle natura e toccato le paure, le cattiverie e la generosità di tante persone”. Confida di aver scoperto una parte di sé “viaggiando, restando in silenzio a pensare, a stupirmi davanti all’immensità di un cielo stellato. Non avevo mai ascoltato il suono del vento, mi sembrò una musica sublime”.
È chiaro che nel personaggio di Simbad c’è Pratt in filigrana. Un uomo curioso che Alberto Ongaro, suo sodale e collaboratore, mezzo secolo fa raccontò nel libro intitolato Un romanzo d’avventura. Dove scriveva: “Oscurità e abissi, misteri, assassinii mentali, fughe da prigioni immaginarie, colpi di spada, navigazioni tempestose, naufragi. Aveva visto soprattutto l’avventura o meglio ne aveva avvertito il rimpianto, l’assenza dolorosa, la paura che non fosse più possibile assieme alla speranza che potesse ancora essere lì, nascosta in qualche angolo della vita quotidiana, a portata di chiunque fosse abbastanza bravo da trovarla”.

Ed è naturale che a dirigere il gioco sia la voce fuori campo di una donna: Sherazade, la figlia del Gran Visir. È lei a compiere il miracolo, ogni volta sospendendo all’alba il racconto e inoculando nel tiranno — goccia dopo goccia — il germe dello stupore e della bellezza. Che consiste nel sognare, immaginare, vivere culture geograficamente lontane da noi e in fondo così vicine. È una saldatura tra la favola che viene dalla notte dei tempi e quella della nostra epoca: non è forse vero che il gigantesco sparviero Roch è l’antenato del Fierobecco di Harry Potter o del Fortunadrago de La storia infinita?
Cielo e mare sono la sorte dell’uomo: spazi liberi che favoriscono l’unione di razze e genti diverse, capaci di comunicare con rispetto. Direbbe lo scrittore marocchino Driss Chraibi: è la civiltà, madre mia. Senza dimenticare la saggia Sherazade di Ennio Flaiano, che appare e scompare in un turbine di veli: “Questa notte, bene o male, mi inebria, ho altri incontri (mille) da concludere, altre fantasie (mille) da accendere, consolare chi sveglio attende l’alba, svegliare di soprassalto i potenti, visitare i carcerati, lusingare gli umili, rallegrare gli offesi, soffiare nell’orecchio degli amanti le parole che impediscono di impazzire al risveglio”. Nel nome del Dio che ognuno si sceglie, e che in questa storia è chiamato Allah misericordioso e compassionevole.