Fra le numerose mostre collaterali d’arte della Biennale d’ Arte di Venezia The Neighbours ci parla del dramma dei prigionieri politici bulgari sotto il regime comunista. Il progetto è esposto nella sala Tiziano del Cento don Orione Artigianelli, sito lungo le fondamenta delle Zattere bagnate dal canale della Giudecca.
Gli autori sono tre artisti bulgari Krasimira Butseva, Julian Chehirian e Lilia Topouzov, coordinati dal curatore della mostra Vasil Vladimirov.
The Neighbours ha inizio presso le case dove per 20 anni hanno avuto luogo interviste ai sopravvissuti dei campi di lavoro bulgari durante la dittatura comunista. Nel corso delle interviste gli artisti hanno evidenziato come il trauma del confino rimanga al centro delle vite delle vittime: la memoria permane nell’arredamento dei loro spazi abitativi, oggetti messi in mostra per perpetuare il ricordo della repressione, l’atroce esperienza dei campi di detenzione attivi dal 1945 al 1989 .

Tre diverse tipologie di sopravvissuti, con tre diversi simboli: tre stanze, a rappresentare i loro sentimenti: chi ha deciso di raccontare pubblicamente, chi si è rifugiato nella rimozione e nel silenzio, chi ha raccontato solo nell’intimità.
L’ esibizione si svolge in un grande salone diviso in modo artificioso nei tre ambienti, arredati nello stile umile delle abitazioni del periodo comunista nei paesi satelliti del regime sovietico.
Voci in lingua bulgara escono da una radio e si diffondono in tutti gli spazi espositivi; sono i frammenti degli interrogatori tenuti dalla polizia segreta.
La prima stanza, The Living Room, simboleggia coloro che hanno avuto la forza e il coraggio di raccontare le proprie esperienze della loro prigionia nei campi di lavoro. Il ‘salotto’ è lo spazio in cui ci si confida, lo spazio fisico che dà vita a conversazioni trasferendo agli altri le proprie esperienze, per coloro che sono riusciti a parlare e a raccontare ai famigliari il loro vissuto, a narrarlo nei libri, a rilasciare interviste ai giornalisti, a testimoniare negli incontri sociali, a rappresentare se stessi come guide nelle visite nei campi di lavoro. Sopravvissuti quindi ma anche preziosi testimoni che hanno trasformato il loro spazio privato in un vissuto da condividere a beneficio della nuova società.

In successione si trova The Bedroom, che testimonia una realtà più intima dove trovano rifugio i sentimenti e i timori di coloro che hanno reso testimonianza in condizioni di tutelata riservatezza. Una comunicazione, questa, molto riservata, prudente, piena di ritrosie e riserbo, dovuta a un forte senso di pudore, alla paura di possibili ritorsioni, alla necessita di proteggere sia se stessi che i famigliari. La paura nel comunicare risponde anche ad un riflesso comportamentale venutosi a consolidare dopo decenni di vita nel sistema dittatoriale.
“Noi non parliamo perché abbiamo paura. È una paura che può capire solo chi ha vissuto le nostre stesse esperienze” dice Nadezhda. A ciò si aggiunge la testimonianza agghiacciante di Ivan: “Quando sono tornato a casa i miei erano felici che io fossi tornato vivo, ma né mia madre, né mio padre né i miei parenti mi hanno mai chiesto niente”. Il bisogno di parlare e di testimoniare viene quindi represso dalla stessa società intimorita, relegando i sopravvissuti in una nuova ‘prigionia’ quella dei “campi sociali del silenzio”.
L ‘ultima stanza è The Kitchen; se nell’ immaginario collettivo la cucina di casa è un posto conviviale, qui rappresenta invece lo spazio del profondo silenzio emotivo, lo spazio del rimosso: viene utilizzata per intrattenere gli altri, per cucinare, per organizzare, per mangiare; ma non per ricordare. In The Kitchen la voce sparisce, qui i ricordi si sublimano in ‘atti del fare’ che tengono a bada i ricordi, il pensare e le emozioni. Sparisce la parola, sparisce la memoria. Ed è qui che gli artisti collocano in modo simbolico coloro che nonostante la fine del periodo dittatoriale non sono riusciti a riapprioppiarsi del potere della testimonianza. Coloro ai quali le esperienze dei campi di lavoro hanno tolto la capacità di rivivere nella memoria, di riuscire a tirare fuori il male subito per trasformalo in una testimonianza storica. La dura prigionia e le paure scolpite nell’ animo hanno negato loro anche il potere terapeutico della parola.

Percorrere lo spazio espositivo è come entrare nella vita privata dei sopravvissuti e induce a riflessioni politiche. Una vicenda storica che ancora presenta molte lacune documentali, come dichiara il curatore Vasil Vladimirov: “attraverso l’arte abbiamo voluto sostituirci alla storia che ancora non ci informa”.
Dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della dittatura comunista nei paesi satelliti della URSS, su molte realtà inquietanti ha prevalso la volontà politica di cancellare le testimonianze e di mettere tutto nell’oblio. “45 anni di comunismo sono stati cancellati e inceneriti in un attimo. Il risultato di questo processo di insabbiamento è una pericolosa lacuna storica che lascia spazio a interpretazioni fallaci, alla formazione di polarizzazioni politiche nella società e al rischio di revisionismo storico” ha detto Vasil Vladimirov.
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