Storia indigena e mondo queer. Questi sono i fili conduttori della mostra intitolata “the space in which to place me” di Jeffrey Gibson esposta al padiglione Stati Uniti della Biennale di Venezia 2024.
Nato in Colorado nel 1972, Gibson ha sempre vissuto una vita itinerante, fatta di soste prolungate in America, dove risiede tuttora, ma anche in Corea e in Germania a causa del lavoro del padre, un ingegnere civile dell’U.S. Army spesso costretto a trasferirsi.
Per questo non c’è mai stato un luogo o un edificio ad identificarlo ma un oggetto. Gli oggetti erano il veicolo attraverso cui egli si portava un pezzo di sé da un Paese all’altro, oltre agli album fotografici di famiglia. Ed è dal concetto di famiglia che le sue riflessioni e le relative traduzioni in arte prendono forma.
“Cosa significa famiglia?”, si chiede l’artista americano in qualità di persona queer. Lungi da offrire una risposta univoca allo spettatore, egli decide quindi di mettere in scena le questioni legate all’identità di genere in maniera eclettica affinché ognuno trovi la propria risposta.
Ma le sue radici sono ben piantante in quella storia di famiglia che nasce e cresce strettamente connessa alle origini indigene dei genitori, a quelle materne cherokee e a quelle del padre, invece parte della Band of Choctaw Indians (una delle tre tribù di Choctaw riconosciute a livello federale in Mississippi) “Crescendo mi sono reso conto che la storia dei nativi americani viene spesso riportata in termini drammatici. Da bambino ci si aspettava che io fossi sempre in lutto ma allo stesso tempo io desideravo radunarmi attorno ad un falò con i miei zii e le miei zie e ridere mentre ascoltavo le loro storie … propongo dunque delle alternative, dei modi alternativi di vivere”.
E infatti le opere di Gibson sono inno alla gioia di vivere e un incoraggiamento ad osare, sono uno schiaffo in faccia all’estetica monocromatica che l’arte moderna pretende, grazie all’uso sapiente che egli sa fare del colore. Anche attraverso la scelta di tecniche miste, dalle perline ai tessuti colorati, nonché nella selezione dei motivi geometrici dalle tinte variegate e sgargianti Gibson riesce ad imporre con eleganza la propria cifra stilistica, rappresentando appieno le sottoculture popolari negli Stati Uniti.
Non appena ci si avvicina al padiglione in cui è esposta la sua mostra, si ha infatti come la percezione di essere inglobati in una realtà alterativa, fatta di stupore e coraggio: dalle sculture che rappresentano volatili con i dread ai quadri tempestati di perline arricchiti con frasi d’inspirazione, fino ad installazioni cariche di pesanti fili pendenti simili a frange, lo scopo dell’artista va oltre la mera definizione del “bello” e mira, piuttosto, alla creazione di un legame con il pubblico, come egli stesso meglio precisa “Non voglio realizzare opere per compiacere le persone ma per comunicare con loro”.
A completare l’esperienza, un breve video del 2020 (She Never Dances Alone) ispirato a Layli Long Soldier, poetessa, femminista e attivista Oglala Lakota e dalla cui opera egli ha tratto anche il titolo della mostra, mette lo spettatore di fronte ad una sovrapposizione di immagini che ritraggono una donna danzante (Sarah Ortegon Highwalking) sulle note della canzone “Sister (feat. Northern Voice)” di The Halluci Nation in abiti indigeni, uno spettacolo dal sapore psichedelico e tribale allo stesso tempo.