l primo disegno del libro è lei che fuma e dice: “È difficile essere liberi. Ma quando funziona ne vale la pena”. Già, ma funziona anche quando una a quella pretesa libertà rimane sotto, e se ne va, assunta al club dei maledetti 27, a far compagnia ai Robert Johnson (1938), Brian Jones (1969), Jimi Hendrix (1970), Jim Morrison (1971), Kurt Cobain (1994), Amy Winehouse (2011)? “Non mi sono mai pentita di niente. Ho fatto le cose a modo mio e probabilmente rifarei tutto daccapo”. Parola di Janis Lyn Joplin, entrata nel club dei defunti a 27 anni nel 1970 . Così almeno le fa dire il libro fumetto Janis Joplin edito da Inkiostro.
Quelle vignette sulla cantante texana hanno il pregio di scansare sentimentalismo e divismo, di non titillare mai la morbosità, neppure con la matita che pure ne avrebbe avute di occasioni!, raccontando come sei soldati americani interiorizzino, nel novembre 1970, all’ospedale della base militare di Da Nang del quale sono involontari ospiti, la notizia della morte della rockstar. Ognuno ha avuto, a suo modo, un rapporto con la cantante, e lo racconta. Janis corrisponde. Fa un bilancio della sua esistenza: “E poi? Qualche concerto, un’altra band, molti casini, moltissime scopate, tanto alcool, troppe droghe”: spiega a se stessa prima che ai soldati perché si sia imbottita d’eroina fino a morirne: “mi faceva seppellire i pensieri, quelli brutti, intendo, perché quelli belli li amplificava, come se non ci fosse un domani”.
Nel fumetto – ne sono autori Francesco Massaccesi per soggetto e sceneggiatura, Paolo Massagli per disegni, copertina e lettering – “sister heroine”, compagna di vita di Janis, è lasciata sullo sfondo, per comparire esplicitamente alla fine, quando va capito perché una ragazza così soddisfatta (“Avevo soldi, successo, uomini e donne che mi si gettavano ai piedi, alcol e droghe in quantità”) crepi nella squallida stanza 105 di Landmark Motor Hotel a Los Angeles, pullulante di pusher, un tiro di schioppo da Hollywood Blvd e Chinese Theater.
Le tavole di Massagli raccontano una vita, ma neppure provano a spiegare perché la ragazza faccia una fine del genere, perché arrivi a spendere migliaia di dollari a settimana di sostanze. Al fondo, come sempre, le sofferenze dell’infanzia e dell’adolescenza mai risolte, neppure con gli amori che, bisessuale professa, si regalava saltando di fiore in fiore. Forse è vero quello che racconterà Milan Melvin, che l’aveva amata: “Nessuno poteva spezzarsi come Janis, nessuno poteva raggiungere la profondità delle sue delusioni, o rimanere così duramente ferito”. Le fu attribuita una frase che può spiegare molto: “Sul palco faccio innamorare venticinquemila persone, poi vado a casa da sola”.
Eppure era vitale, amicona e coinvolgente, proprio come la si vede nel film documentario di Bob Smeaton Festival Express: dopo l’interpretazione drammatica del monologo musicato di Cry baby, è giocosa e persino vezzosa sul treno che, nell’agosto 1970, un paio di mesi prima della fine la porta con altre rockstar in giro per il Canada. Su quel treno degli eccessi ci sono anche i Grateful Dead che con Joplin ebbero molto a che spartire: il loro pianista e fondatore Ron “Pigpen” McKerman con lei ebbe una breve relazione romantica. “Era spavalda, esplosiva, una battuta dietro l’altra, ma non per rompere il ghiaccio, semplicemente perché lei si sentiva così, sapeva di potersi permettere di dire qualunque cosa le venisse in mente”, avrebbero raccontato.
Avrebbe forse avuto bisogno di qualcuno, come le fa dire nel fumetto Massaccesi, che la riportasse sulla terra. Non ci riuscì l’amica e stilista personale Linda Graventes che l’aveva creata come icona per il pop rock di quegli anni incantevoli e terribili, fatti di Vietnam, lotte per i diritti civili, assassini politici, grande musica e grandi eccessi, sex & rock and roll. Non ci riuscì Leonard Cohen che così la ricorda nel toccante Chelsea Hotel#2 (lo frequentarono anche insieme quell’albergo per artisti):“Eri famosa, il tuo cuore una leggenda. Mi ripetesti che preferivi un bell’uomo. Ma che per me avresti chiuso un occhio. E stringendo i pugni per chi come noi è oppresso dal corpo dei belli ti sei sistemata, poi hai detto, ‘Beh, che importa siamo brutti, ma abbiamo la musica’”.
Per il resto una voce pazzesca costruita giorno dopo giorno arrochendo il dono di natura per imporsi nel blues; energia da rocker sul palco, anche se addolcita dalla femminilità pacioccona di bambina in carne, accentuata dal metro e 65 di altezza e da occhioni blu oceano. Molte sue ottime interpretazioni sono in rete: le ascolti chi non se l’è goduta nella profondità del vinile o nei concerti di quegli anni lontani, e non si meravigli di quanto quella musica possa scuotere l’anima.