Antonio Di Bella, giornalista e scrittore, ha vissuto gran parte della sua carriera professionale negli Stati Uniti e tutta l’esperienza raccolta in quegli anni oggi la mette a nostra disposizione nel suo nuovo libro, L’Impero in bilico. L’America al bivio tra crisi e riscossa (edizioni Solferino). Per aiutarci a interpretare il momento storico molto delicato che l’America sta vivendo. Con la prefazione del collega Federico Rampini, il lavoro di Di Bella tenta di fare il punto sulla condizione di profonda incertezza in cui verte la più grande democrazia al mondo. Un’analisi profonda nell’anno delle elezioni presidenziali di novembre, caratterizzate da uno scontro bis per la Casa Bianca tra il presidente in carica Joe Biden e il leader MAGA Donald Trump.
Il titolo del suo libro fa a riferimento alla condizione di crisi del sistema democratico degli Stati Uniti. Quanto è grave?
Va detto che fin da quando portavo i calzoni corti sento parlare di impero sul punto di crollare. Gli Stati Uniti non crolleranno; anche se sicuramente, per usare l’espressione coniata da Thomas Friedman sul New York Times, siamo davanti a “un vecchio leone il cui ruggito fa meno paura” rispetto a qualche tempo fa. Attualmente è testimoniato dalla minore deterrenza della forza americana in alcuni scenari come quelli dell’Ucraina e del Medioriente.
A proposito del Medioriente, quanto è delicata la posizione di Biden?
Il presidente si muove attraverso un sentiero stretto: da una parte deve garantire la sicurezza d’Israele e da un’altra deve dare ascolto alla linea interna per la protezione dei civili a Gaza, cosa che secondo me sta cercando di fare. La via migliore resta la delicata operazione diplomatica che sta facendo insieme al segretario di stato Antony Blinken.
Biden ha svolto una efficace politica economica ed è considerato tra i migliori presidenti democratici degli Stati Uniti dal secondo dopoguerra. Perché manca il pieno appoggio?
Bisogna riconoscere che la capacità di attrattiva di Biden è scarsa. Il messaggero è più debole del suo messaggio. Secondo me quella del suo mandato è un’eccellente politica ed è stato capace di spostare l’attenzione dal consumatore, come succedeva durante l’era Clinton, al produttore. Guarda, ad esempio, il suo essere fisicamente vicino ai sindacati dell’auto, che è una cosa senza precedenti. Però queste scelte giuste, che hanno provocato contraccolpi positivi come la diminuzione della disoccupazione e il freno all’inflazione, non vengono percepiti perché il messaggero, cioè Biden, non è abbastanza empatico. E questo è l’unico punto che io considero negativamente della sua presidenza.
Conta esclusivamente l’empatia?
È come se Biden non fosse stato in grado di “passare la torcia” – espressione usata nel discorso inaugurale del presidente John F. Kennedy – alla nuova generazione, quella Kamala Harris che era stata considerata la sua erede naturale e che invece ha deluso le aspettative. A questo punto sarà bene concentrarsi su ciò che è il cosiddetto male minore, cioè mettere in evidenza che in ogni caso anche se non è amato dal suo elettorato è sempre meglio che eleggere Trump. D’altronde i sondaggi dicevano che qualsiasi altro candidato repubblicano, ad esempio Mickey Haley, avrebbe facilmente battuto Biden, invece Trump è l’unico candidato repubblicano che rischia di perdere con Biden.
A novembre, dovesse vincere Trump quale scenario si prospetta per l’Europa?
Dico che chiunque sia europeo debba augurarsi che Trump non vinca. Lascerebbe l’Europa a se stessa. Ma rappresenterebbe un problema per la politica estera in generale. Trump sostiene Putin e ha affermato che non solo non difenderà gli Stati che non arrivano al 2% delle spese militari, ma inciterà il presidente russo in caso decidesse di attaccare. Biden, al contrario, ha sempre avuto una affezione particolare alla Nato e all’Europa. Naturalmente sa anche che la Cina è la sfida del domani, ma per lui l’Europa è un alleato fondamentale. La stessa presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che in passato aveva avuto rapporti con i repubblicani, sta lavorando bene con l’attuale presidente, e credo che avrebbe dei problemi se cambiasse di colpo il suo atteggiamento.
Descrive l’assedio al Capitol Hill come l’eruzione di uno stato politico e psicologico comune a un largo strato dell’opinione pubblica.
Ho cercato in tutto il libro di contestare una concezione, una visione soprattutto italiana, che vede in Trump e in chi lo vota una massa di pazzi completamente scollegata dalla realtà. Non è così. Ovviamente ci sono degli estremisti che ho visto marciare con i miei occhi verso Capitol Hill, ma ci sono ampie fasce di elettorato che hanno delle motivazioni reali nel votare Trump. Ad esempio, gli operai del Michigan che ho incontrato e intervistato. Questi hanno perso il lavoro per via della svolta globalista dell’era Clinton, così si sono girati nella direzione di Trump, come voto di protesta per punire i vari Clinton e quella politica. Biden fortunatamente, con le sue politiche, dovrebbe recuperare quei voti perduti. Però rimane una sorta di avversione per quell’atteggiamento di disprezzo verso leadership democratica. Verso quello Hillary Clinton, che li ha definiti “despicable people”. Questa è che si sente disprezzata e che quindi protesta nell’unico modo che sa: non votando per i democratici, anzi persino appoggiando Trump.
In L’Impero in Bilico descrive il movimento Black Lives Matter come un contraccolpo per il partito democratico
Io credo nella sacrosanta battaglia per i diritti degli afroamericani condotta da Martin Luther King, però, credo che negli anni si sia snaturata. MLK sognava una valutazione basata sul not to be color blind, ma sul merito. Invece ora con la deriva woke si punta sull’affermazione concentrata unicamente sul colore della pelle. Questo è quello che Federico Rampini, che ha fatto la prefazione, intende quando sottolinea che il bianco colonialista ha determinato un senso di colpa dell’Occidente. Cosa su cui sono d’accordo e che trovo stia avendo dei contraccolpi negativi sulla politica dei democratici, quindi sull’effetto elettorale.
A tal proposito cita Marc Caruso, cameraman con cui ha lavorato negli Stati Uniti.
Il cineoperatore di tutte le mie dirette per la Rai, nato a New York e di famiglia saldamente democratica, mi ha spiegato perché vota Trump. Come italoamericano si sente discriminato, rispetto agli afroamericani naturalmente, ma anche a chi vuole iscriversi all’università. Ad esempio, secondo lui ora chi non è nero, gay o donna è discriminato nella “competizione” per iscriversi all’università. Marc sente che il merito non conta più come prima. Io credo che questo sistema danneggi altre minoranze, italoamericani ma anche asiatici, come il resto. Un abbaglio che spero rientri nei processi lunghi dei decenni a venire.