Quando scrisse I Love Shopping (anche noto come Confessions of a Shopalcoholic) Sophie Kinsella toccò un nervo scoperto nell’anima di moltitudini di donne. Correva l’anno 2000, la giornalista britannica aveva 31 anni, e la sua Becky si infilava in un sacco di guai con un denominatore comune: pochi soldi, e tutti spesi per comprarsi bulimicamente il mondo. Roba per la casa, cibo, ma soprattutto, ovviamente, vestiti e scarpe e accessori.
Piacque. Moltissimo, tanto che diventò il primo di una serie (il secondo volume spostava Becky da Londra a New York, e in effetti quali città più adeguate a frequentare vetrine?)
Ora Sophie Kinsella, pseudonimo di Madeleine Sophie Wickham, ha annunciato di essere ammalata: ha un cancro al cervello, diagnosticato alla fine del 2022. Lo ha scritto sui social: si tratta di glioblastoma, un tumore comune (colpisce migliaia di persone l’anno in Italia). “Non l’ho detto prima perché volevo assicurarmi che i miei figli fossero in grado di ascoltare ed elaborare queste notizie nella privacy e adattarsi alla nostra ‘nuova normalità'” ha scritto Kinsella, spiegando di essere in cura all’University College Hospital di Londra, di essere stata operata e poi a seguire “radioterapia e chemioterapia, che è ancora in corso”.
Tutti le fanno gli auguri, e pensano al destino cinico che investe proprio una persona che ha fatto della leggerezza un’arte. In fondo i suoi romanzi – che sono etichettati nel genere ‘rosa’ della cosiddetta chick lit, la letteratura dedicata alle donne, anzi alle ragazze – sono scritti per regalare qualche momento di gratificazione per interposta persona. Ovvero: se non potete permettervi di usare la carta di credito che vi tira, perché vuole entrare nei negozi; se siete meno scriteriate di Becky e non rinunciate alla cena per un paio di scarpe; almeno, seguendo lei, potete sognare.
È un fatto che lo shopping solleva il morale: “una verità universalmente riconosciuta”, per dirla con Jane Austen. Verità che ha anche un nome: retail therapy, la terapia degli acquisti. Carrie Bradshaw in Sex and the City la circoscriveva al suo folle amore, le scarpe (con tacco a spillo, possibilmente di alta marca). Ma funziona anche nel piccolo: contro una delusione amorosa, compriamo un maglione di lana verdeazzurra; per consolarci di un litigio, un nuovo ombretto; o magari una t-shirt, anche se certo, borse di cuoio e stole di cachemire producono un effetto più profondo.
Per chi ama fare shopping, poche cose procurano più intimo godimento che comprare quel vestito, quel bracciale, quell’anello che ti ha catturato e potrebbe risolvere la tua serata, anzi, ne sei certa, che diventerà il tuo preferito, e per questo ha senso comprarlo, anche se ne hai armadi e cassetti pieni: ma non puoi andartene senza.
Chiamiamolo consumismo o accumulazione ossessiva: gratificarsi comprando è una panacea di molti mali (tanto più se conserviamo lo scontrino e possiamo cambiare a volontà. C’è chi compra quattro vestiti di colori diversi online solo per provarli, con l’intenzione di restituirne subito almeno tre).
Solo che bisogna andarci piano a parlare di chick lit. Perché se gli uomini si sconvolgono di fronte agli acquisti delle donne, è puramente per una questione di categoria. L’acquisto di vestiti coloratissimi a loro non interessa (o se interessa, preferiscono tenerlo nascosto), e magari viene ridicolizzato con lo stesso cipiglio di quelli che raccontano le barzellette sulle donne che non sanno parcheggiare. Ma guarda un po’: in compenso automobili, orologi, giocattoli tecnologici e oggetti da collezione di ogni tipo (dalle pipe alle stilografiche agli occhiali ai francobolli alle bottiglie di vino) sono il lato ufficialmente virile della retail therapy, non meno costoso né meno superfluo, e a tanti dà la stessa gioia. Le mani bucate possiamo averle tutti senza distinzione di genere e sesso, e Sophie Kinsella le ha celebrate.