All’Istituto Italiano di Cultura ha parlato del suo amore per La Rondine di Puccini. E non lo ha fatto solo spiegandone a parole la bellezza dei pizzicati, degli assoli degli strumenti a fiato, delle struggenti melodie. Lo ha fatto mettendosi al pianoforte e suonando. Speranza Scappucci ha affascinato il pubblico con la sua chiarezza, passione, disponibilità. Senza arie da grande Maestro pur essendo un grande Maestro, impegnato in questi giorni sul podio del Metropolitan Opera House a dirigere La Rondine di Puccini, appunto, reduce da Montecarlo dove ha diretto Gianni Schicchi e pronta per Washington dove in maggio dirigerà Turandot.
È il centenario della morte di Puccini e tutti i teatri del mondo lo celebrano con allestimenti delle sue opere più celebri. Il Met ha voluto rispolverare anche un’opera che non metteva in scena dal 2008 e prima di allora dal 1936 e più indietro ancora dalla prima rappresentazione del 1928. Non una opera molto amata quindi, pensata sempre come minore, un’operetta. “Io invece più la interpreto e più la amo – ha detto Scappucci – è molto delicata e molto diversa da ogni altra. Tosca e Madama Butterfly sono in un certo senso più ovvie, La Rondine è più particolare.”

La Rondine nasce su richiesta del Carltheater di Vienna che desiderava un’operetta come nella moda del tempo. Era il 1914, Puccini riluttante alla fine accetta ma scoppia la Prima guerra mondiale, l’Italia si allea con Francia e Inghilterra contro Germania e Austria, e il progetto vede la luce nel 1917 a Montecarlo per poi essere più volte rimaneggiato negli anni successivi, per l’insoddisfazione del compositore.
L’opera ha una disperata malinconia e grande raffinatezza, spiega nella conferenza lezione Speranza Scappucci. La lettera della madre che nel terzo atto benedice l’unione dei due innamorati, che dovrebbe essere accompagnata da note di gioia, per esempio, è invece sottolineata da una melodia triste, che riflette l’angoscia della protagonista: segno della delicatezza del compositore, dice.
E poi: “Puccini ne La Rondine usa molti strumenti a fiato come solisti: il flauto da solo, l’oboe, il clarinetto: c’è molta musica da camera, i pizzicati degli archi, le arpe, per creare questa sensazione del mare, come nel terzo atto. Puccini è sicuramente il compositore che amo di più, da sempre, anche quando suonavo da pianista. Ovviamente Verdi è dentro di me, ho lavorato molto con il maestro Muti come pianista e da lui ho imparato tantissimo su come interpretarlo, ma in Puccini c’è una teatralità incredibilmente dettagliata. Nello spartito scrive quello che vuole con grande precisione, la bellezza della melodia emerge, non c’è bisogno di farla troppo zuccherata, diventerebbe volgare, basta essere molto attenti a come trattare orchestra e cantanti in modo che la melodia ti prenda, ma da dentro.”

L’essere dettagliata, precisa, attenta, puntuale, sono proprio le doti rilevate dai critici che scrivono: “…Scappucci ha mantenuto una eccellente fluidità per tutta la serata” (New York Classical Revue”; “…ha un approccio chiaro che rende lo spartito di Puccini più limpido che mai…”(Observer), “…l’orchestra del Met, diretta da Scappucci con talento e sensibilità, ha fornito una esecuzione raffinata e fluida…”(Backtrack)
Scappucci al Met è arrivata dopo un lungo percorso: assistente di Muti per 8 anni a Salisburgo, ha diretto la Staatsoper viennese, l’Opera di Roma, e orchestre a Chicago, Glyndebourne e New York, dal 2017 al 2022 ha diretto la Royal Opéra de Wallonie a Liegi e dal 2025 sarà la principale direttrice d’orchestra ospite della Royal Opera House di Londra, per citare solo alcune tappe. Al Met ormai è di casa: dopo il debutto ne Il Rigoletto lo scorso anno il pubblico la riconosce e la applaude. “Il Metropolitan è uno dei tanti sogni che si sono avverati – ci ha detto – ci pensavo mentre studiavo alla Julliard, ci ho anche lavorato come pianista. Come La Scala, come Roma che è la mia città: ogni teatro ha dietro un sogno, che si avvera.”
Nel 2022 è stata la prima donna a dirigere alla Scala: che differenze si avvertono fra questi due grandi teatri, le chiediamo infine. “Il linguaggio della musica è universale – ci dice – e quindi non ci sono differenze, stiamo parlando di due grandi orchestre, e grandi musicisti. Il pubblico invece è diverso dappertutto: in alcuni teatri non è tanto caloroso durante la recita, ma esplode alla fine, penso a Liegi dove sono stata direttrice musicale e i primi tempi mi dicevo: ma questi non applaudono dopo le arie? Ma alla fine era un tripudio. In Italia un’opera si vive in maniera viscerale, se si contesta lo si fa veramente, in America raramente si contesta e il calore del pubblico lo senti, quando c’è un’ovazione è proprio sentita. E poi a New York ci ho vissuto, ho con questa città una connessione viscerale, per me è come stare a casa.”