È un gioiello del barocco siciliano che risale al 1693. La perla lucente è la scala a chiocciola più bella del mondo: un capolavoro rococò di ingegneria, arricchito dalla lavorazione in stucco bianco a fiocco di nuvola. Palazzo Biscari sta a Catania come la Statua della Libertà sta a New York: l’uno non sarebbe lo stesso senza l’altra e viceversa. Unico, raffinato, lussuoso, fu la risposta del principe mecenate Ignazio Paternò Castello III, di suo figlio e del nipote al terremoto che aveva annientato il Val di Noto. I sontuosi corridoi portano a una serie interminabile di stanze. “Sono almeno seicento, forse qualcuna in più. Impossibile contarle tutte anche con planimetria e matita per spuntarle una a una”, spiega il principe Ruggero Moncada, attuale proprietario del maestoso edificio nel cuore della città antica, costruito sopra le mura cinquecentesche risparmiate dal sisma. Lui abita lì, in un’ala di quella magnificenza, e scorta chi si presenta a visitarla. Racconta un mondo lontano, una bellezza antica e presente, gli ospiti illustri – da Goethe alla regina madre d’Inghilterra giù giù fino a Mick Jagger e ai Coldplay – e fatti che sembrano leggende. Ma tali non sono.
Salendo lo scalone si arriva alla cupola della loggia della musica, che si affaccia con un balconcino sul sottostante salone delle feste a forma di chitarra. Ampio com’è, costituisce una sorta di piazza interna pavimentata con mattonelle in ceramica di Vietri: l’omaggio degli architetti alla dama napoletana che aveva sposato il principe Ignazio V. Decorato da ritratti di famiglia, affreschi – nel cupolino è raffigurato il dio Vulcano – e grandi specchi con cornici a foglia d’oro, quello spazio è diventato durante la seconda guerra mondiale il più straordinario, stupefacente e prezioso campo da tennis della storia. Come? Per capirlo è necessario avvolgere il nastro all’indietro.

Luglio del ’43, il conflitto è arrivato al momento cruciale. È in corso l’operazione anfibia Husky che pianifica lo sbarco in Sicilia degli alleati, guidati da due generali: George Smith Patton a capo della settima armata Usa e Bernard Law Montgomery per l’ottava armata britannica. Nell’isola si trovano 200mila uomini delle truppe italiane e tedesche, queste ultime depistate dapprima in Grecia dai servizi segreti nemici; gli anglo-americani schierano 160mila militari, 4mila aerei da combattimento e trasporto, 285 navi e due portaerei. Il piano prevede l’approdo nella zona sud-orientale della Sicilia, quindi una manovra a tenaglia che impedisca la ritirata alle forze dell’Asse. Lungo il percorso si susseguono scontri cruenti e orribili crimini di guerra. Uno in particolare avviene il 14 luglio a Biscari, feudo ragusano dei principi: soldati italiani e tedeschi, presi prigionieri con le mani alzate in segno di resa, vengono fucilati dagli americani agli ordini del capitano John Compton. Tra le vittime c’è un campione di atletica e di nobiltà d’animo: si chiama Luz Long, ha trent’anni e nel ’36 ha vinto l’argento nel salto in lungo alle Olimpiadi di Berlino. Hitler non gli ha perdonato l’amicizia con Jesse Owens, il nero dell’Alabama che trionfò nello stadio, spedendolo per punizione con la divisione corazzata Goering sul fronte siciliano, dove trova la morte. È sepolto nel cimitero militare germanico di Motta Sant’Anastasia.

Nel frattempo Patton occupa Gela e punta a Palermo – la prenderà il 22 luglio. Montgomery marcia verso Ragusa e il 5 agosto entra dopo mille difficoltà a Catania, fondamentale per ricevere i rifornimenti via mare. Gli serve però un punto strategico davanti al porto, dove poter sistemare la batteria dei cannoni: la scelta cade su Palazzo Biscari. Sua Maestà Britannica ordina di abbattere il secondo piano per facilitare la difesa della postazione. Ma una volta entrati nelle sale, gli ufficiali restano abbagliati da tanta bellezza: sarebbe delittuoso raderle al suolo. Fanno così marcia indietro trasformando l’edificio nel comando operativo: è Monty – lo chiamano così, senza farsi sentire – a decidere.
Il generale è un uomo scontroso, piccolo e magro con fama di asceta: non beve, non fuma e possiede un carisma eccezionale. Il suo nome è legato indissolubilmente a un cappotto e a una battaglia. Il capotto che indossa sopra l’uniforme ha il cappuccio, utile in caso di pioggia o neve, e si abbottona con lacci e minuscoli cilindri di legno. La battaglia è quella di EI-Alamein, dove ha sconfitto la volpe del deserto Erwin Rommel. Figlio di un pastore anglicano, è nato in un sobborgo di Londra nel 1887 e da ragazzo eccelleva nel rugby e nel nuoto. In più si destreggiava nel gioco codificato appena 13 anni prima dal maggiore Wingfield. Il brevetto comprendeva un campo a forma di clessidra diviso al centro da una rete sospesa, una scatola con le palle e quattro racchette: era il tennis, of course.
Definite le posizioni, la guerra in Sicilia viveva una fase di stallo: il comandante in capo Dwight Eisenhower sarebbe atterrato a Catania solo a fine agosto, alla vigilia dell’armistizio dell’8 settembre. Fra momenti febbrili e ore vuote, le giornate passavano lente a Palazzo Biscari. Uno degli ufficiali presentò a Montgomery una richiesta bizzarra: creare un campo da tennis nel salone delle feste, che pareva fatto apposta per giocare. Permesso accordato, concesse il generale. Del resto il jeu de paume, ossia gioco del palmo della mano, l’antenato del tennis, si svolgeva all’interno delle corti in Francia già nel tredicesimo secolo. E in Italia, con il nome di pallacorda, ebbe larga diffusione nel Rinascimento: tra i praticanti c’era anche un certo Caravaggio.
Con un secchio di vernice e i pennelli i soldati segnarono le righe sul pavimento, poi tirarono fuori racchette e palline dai bauli e la partita cominciò. “Davanti a uno dei caminetti – conferma il principe Moncada – sono ancora visibili le tracce corrispondenti alle linee del corridoio per il doppio. E anche su altre mattonelle in maiolica, che avevano sostituito nel Settecento il cotto siciliano, si distingue la tinta bianca usata dagli inglesi. Grazie alla volta altissima, la sala della musica ha un’acustica perfetta: chiudendo gli occhi, e tornando a ottant’anni fa, è facile immaginare il pof o il toc della racchetta che colpisce la pallina”.

C’è dell’altro. Nel salone mancano oggi le quattro specchiere originali, ridotte in frantumi dai giocatori alleati durante le partite. E il dipinto che ritrae la principessa Anna presenta un grosso squarcio sulla tela mai restaurata: il ricordo di un’altra pallata maldestra. “Noi tireremo diritto”, era stato lo slogan di Mussolini nella conquista dell’Etiopia. Frase stentorea ripetuta sul campo di Villa Torlonia al maestro personale Eraldo Monzeglio – campione del mondo con gli azzurri del calcio nel ’34 e nel ’38 – che lo invitava invano ad allenare il rovescio ballerino. Ma furono gli inglesi e non il Duce a vincere la guerra: game, set, match. Anche se a Palazzo Biscari tiravano storto.