“Ciak guagliò, si gira”. Modi spicci e toni da comandante, ambiziosa e abilissima nel fiutare le occasioni, Elvira Coda Notari è stata una pioniera del cinema muto. Sotto il Vesuvio, nel resto d’Italia e nel mondo, visto che ai primi del Novecento di donne capaci d’essere insieme attrice, regista, produttrice, sceneggiatrice e talent scout non ce n’erano altre. A eccezione forse di Alice Guy-Blaché, pilastro della Cinématheque Française e orgoglio transalpino, insignita della Legion d’onore per meriti artistici. Non è toccato lo stesso alla “marescialla” – la chiamavano così ed è inutile spiegare perché – esclusa da qualunque riconoscimento istituzionale, ai suoi tempi e ai nostri, malgrado abbia rappresentato un simbolo concreto dell’emancipazione femminile.

Nata a Salerno nel 1875 da Diego e Agnese Coda, cresciuta in una famiglia modesta, frequentò le scuole magistrali, prese il diploma e arrivò perfino all’insegnamento. Finché la famiglia si trasferì a Napoli nel 1902, dove Elvira cominciò a lavorare da modista, mestiere che le fu molto utile successivamente, sul set. La svolta fu l’incontro con un uomo ingegnoso e anticonvenzionale quanto lei: Nicola Notari, pittore che per fare giornata si era specializzato nel colorare con l’anilina le pellicole fotografiche. Il matrimonio lampo, condito dai tre figli Eduardo, Dora e Maria, fu il preludio a una attività imprenditoriale innovativa e temeraria. La coppia puntò sull’industria del cinema agli albori fondando in via Roma 91 la casa di produzione Dora Film: documentari e cortometraggi a soggetto, riprese del lungomare Caracciolo, matrimoni, feste a Capri. Presto però passarono ai lungometraggi, annusando il gusto popolare del momento. Grazie a loro, alla Lombardo Film e alla Partenope Film, la capitale del Sud contendeva a Torino il primato di capitale della cinematografia. Le fonti d’ispirazione erano i feuilleton, i romanzi d’appendice di Carolina Invernizio, le canzoni e i fatti tragici – estratti dalla cronaca nera – realmente accaduti in città. Non a tutti piacevano quelle trame crude dalla vena semplice, che frugavano nel ventre profondo dei vicoli: Matilde Serao, la scrittrice più volte candidata al Nobel, le stroncò rifiutando di collaborare a un progetto comune.
La critica non condizionò più di tanto Elvira e Nicola. Quei due facevano da soli: ideavano la storia, giravano e poi riversavano il materiale nello stanzone-laboratorio dove le pellicole venivano stampate, titolate, arricchite dalle didascalie e colorate da operai e operaie che provvedevano ad assemblare il manufatto finale. La tecnica era artigianale ma efficace. I fotogrammi erano colorati a mano, uno per uno, oppure a macchina con tinte uniformi che esprimevano i sentimenti degli interpreti: il viraggio in blu rappresentava la malinconia, il rosso evocava la rabbia. In più le immagini erano sincronizzate con la musica e il canto eseguito dal vivo, a comporre uno spettacolo audiovisivo integrale.

Dietro c’era l’intuito di Elvira, che apriva una scuola per attori eppure faceva recitare in dialetto gente presa dalla strada e due giovani che sarebbero diventati formidabili caratteristi: Tina Pica e Carlo Pisacane, il Capannelle dei Soliti ignoti. Prendeva le decisioni al volo. Il titolo di una canzone in locandina al Festival di Piedigrotta la attirava? Ne acquistava in anticipo i diritti, per trasformare il brano in soggetto cinematografico. Insomma si occupava di tutto. Da manager totale trattava personalmente i rapporti con la stampa, garantendosi pubblicità e recensioni sui giornali. Curava manifesti e programmi di sala. La catena di montaggio funzionava perfettamente: c’era posto per tutti nell’impresa di famiglia, anche per amici e parenti. Tra loro si distingueva il figlio Eduardo, uno dei primi bambini-attori del cinema nostrano arruolato per interpretare lo scugnizzo Gennariello. Raccontava il nipote Armando: “Come regista, mia zia era severissima, addirittura pignola. Non esitava a far ripetere le scene che non le erano piaciute ed esigeva lacrime vere”.
Il successo commerciale fu enorme. Le programmazioni duravano settimane, il cinema Vittoria anticipò le proiezioni alle 10 del mattino per accontentare il pubblico immedesimato e debordante. Tutto filava a meraviglia ma la fine dell’avventura, imprevista e imprevedibile, era dietro l’angolo: l’avvento del fascismo fu la condanna della self-made-woman creativa, tenace e autoritaria.
Il regime non poteva tollerare la rappresentazione dei bassi dove spadroneggiavano guappi, camorristi, femmine di malaffare. La Napoli dei coniugi Notari aveva la faccia del sole e del golfo, certo, però mostrava anche una tenebra intrisa di miseria, sporcizia e ignoranza. Abitata dal disagio e dall’ingiustizia, che a volte portavano a delitti, pazzia, suicidio. E poi davano fastidio le donne: personaggi viscerali, fuori dagli schemi, sensuali e insofferenti alle regole di una società dove l’uomo era il padrone. Un realismo prima del neorealismo.
Osteggiata in patria come anti nazionalista, costretta a una diffusione regionale, per sopravvivere la Dora Film tentò la fuga oltreoceano all’inizio degli anni Venti. Elvira salì su un piroscafo e sbarcò in America con le pellicole in valigia, accolta trionfalmente dalla comunità degli emigranti che l’adoravano. Aprì una sede a New York proprio nel cuore del quartiere tricolore, a Mulberry Street, toccando i sentimenti e l’immaginario dei connazionali espatriati che respiravano un’Italia verace. Profondamente diversa da quella ufficiale del Duce.

C’era però il ritorno da affrontare, e fu durissimo. Mussolini aveva piegato il cinema alla propaganda, centralizzando la produzione a Roma e poi a Venezia, per privilegiare storie lontanissime dai film firmati Notari. La nota della Commissione censura del ‘1928 non lasciava spazio di manovra: “Quelle immagini sono una calunnia per una popolazione che pur lavora e cerca di elevarsi nel tono di vita sociale e materiale che il regime imprime al paese; considerato peraltro che siffatti film sono eseguiti con criteri privi di qualsiasi senso artistico, è stato deciso di negare, in via di massima, l’approvazione dei film che persistono su clichés che offendono la dignità di Napoli”.
Il declino fu rapido e doloroso. La Dora Film chiude il portone nel 1930, sopraffatta dalla politica e dai costi altissimi delle pellicole sonore. Elvira lascia Napoli per ritirarsi a Cava dei Tirreni, raggiunta da marito e figlio allo scoppio della guerra mondiale. La morte la coglie nel ’46, alla fine delle ostilità: aveva 71 anni. Degli oltre sessanta lungometraggi girati si contano tre soli superstiti: È piccerella e ’A santanotte del 1922, Fantasia ‘e surdate datato 1927. Gli altri film sono sperduti nel buio.