È stato l’anno di Caravaggio, sarà l’anno di Caravaggio. Il buio del mondo e gli squarci di luce, ovvero la sintesi della sua vita e della sua arte: sono gli elementi che catalizzano l’attenzione di esperti, appassionati o semplici profani per il genio maledetto. Tutti in coda a osservarne da vicino i capolavori, un fiume umano che ha persino superato i numeri record di Van Gogh – l’altra immensa personalità perturbata – nell’anniversario del Museo di Amsterdam. Ma quel che più colpisce è la capacità di attrarre il pubblico dei giovani, che accanto a Zero Calcare e Andrea Pazienza tengono sul comodino l’edizione integrale della graphic novel a lui dedicata da Milo Manara. Che cosa trovano istintivamente i ragazzi in un personaggio così controverso? Una risposta plausibile arriva dal libro appena pubblicato da Nicomp Laboratorio Editoriale, intitolato Caravaggio: il processo creativo. L’autore è Giuseppe Resca, psichiatra e psicoterapeuta di fama, da sempre appassionato di pittura, grande collezionista, che richiama nell’introduzione il verbale d’interrogatorio reso dal barbiere Marco Romano nel luglio 1597 al tribunale di Roma. La descrizione è stupefacente: “Questo pittore è un giovenaccio grande di vinti o vinticinque anni con poco di barba negra grassotto con ciglia grosse et occhio negro, che va vestito di negro non troppo bene in ordine che portava un paro di calzette negre un poco straccione che porta li capelli grandi longhi dinanzi”.

Eccolo qui, il rivoluzionario diabolico e paradisiaco dalla doppia natura, che si aggira di notte nei vicoli come un barbone, con la spada sul fianco a caccia di nemici. Per dare e cercare morte. Distruttivo e autodistruttivo. Riuscì nella prima parte del progetto inconscio la sera del 28 maggio 1606: una partita di pallacorda trascesa in rissa, vecchi rancori, la lama che infilza il rivale Ranuccio Tomassoni. E’ il colpo del destino per l’eroe dark, metà Joker e metà Batman, santo e assassino, tormentato quanto Brandon Lee ne Il Corvo: l’espressione moderna di un fascino terribile a cui è impossibile resistere. Michelangelo Merisi, nato a Milano il 29 settembre 1571, morì in circostanze misteriose a Porto Ercole, verosimilmente il 18 luglio 1610. Ma è morto davvero? il suo corpo non è mai stato trovato, dunque è possibile che continui a percorrere le tenebre delle città, highlander gotico senza pace e senza salvezza. In fondo tale è secondo Resca, che chiude con il suo saggio una trilogia di studio e ricerca, volta a comprendere l’origine di un’opera universale che trascende il tempo. Lo specialista entra nella testa criminale di Caravaggio, ne scandaglia gli incubi, guarda ogni cosa con i suoi occhi. Arrivando così a cogliere la matrice di un processo creativo che parte dalle pulsioni ossessive per arrivare al sublime, in un divenire continuo che non ha pari nella storia dell’arte.
Il riscontro immediato è nelle opere e nell’enorme seguito che riscuotono. A partire dalla Presa di Cristo, dipinto ricomparso vent’anni dopo rocambolesche vicende e tornato visibile oggi a Palazzo Chigi di Ariccia dopo un laborioso restauro. È la seconda volta che viene esposto dalla storica mostra del 1951 al Palazzo Reale di Milano, curata da Roberto Longhi: c’è ancora un po’ di tempo per ammirarlo, il sipario calerà il 14 gennaio. Intanto i visitatori stravedono per Giuditta e Oloferne, capolavoro tornato a casa – la parete nord nella sala 24 di Palazzo Barberini a Roma – dopo la trionfale tournée al Minneapolis Institute of Art. Vivido e conturbante, il dipinto buca la tela con tutta la potenza del chiaroscuro: carne e sangue, violenza e grazia divina fissate nella stessa scena. E per un Caravaggio che rientra, un altro è in partenza: il suo ultimo miracolo, cioè il Martirio di Sant’Orsola, lascerà Palazzo Piacentini a Napoli con destinazione Londra. Dove la National Gallery, dal 18 aprile al 14 luglio, lo metterà di fronte a una delle due versioni di Salomé con la testa del Battista, da anni nelle collezioni del museo.

È l’impronta di Caravaggio, superstar senza frontiere che ha appena debuttato (fino al 4 aprile) sul palcoscenico della Halle 5 nel centro fieristico di Basilea, attorniato dai dipinti di Orazio e Artemisia Gentileschi, Guercino, Annibale Carracci e Simone Peterzano, istruttore di quel promettente apprendista nella sua bottega milanese. In mostra alcuni splendori prestati dagli Uffizi o da collezionisti privati a scandire la parabola tempestosa del maestro. C’è Il cavadenti, c’è Davide con la testa di Golia, c’è il Ragazzo morso da un ramarro. E c’è soprattutto la Maddalena in estasi – esposta fino a venti giorni fa nel Castello di Mesagne – l’opera che Merisi portava sulla barca diretta a Porto Ercole nel viaggio d’addio. Il dipinto sparito è in realtà passato da una generazione all’altra nella stessa famiglia inglese, finché Mina Gregori – massima studiosa di Caravaggio, allieva prediletta di Roberto Longhi – dieci anni fa se lo trovò davanti e disse semplicemente: “Finalmente, è la Maddalena”.

Perché le sorprese con Caravaggio non finiscono mai, tra scoperte vere e presunte. Così ci sarebbe anche la sua mano nella Deposizione di Cristo di Peterzano conservata nella chiesa di San Giorgio a Bernate Ticino. Non ha dubbi Gerard Maurice-Dugay, professore emerito alla Sorbona, già insegnante alla Scuola Superiore del Louvre e Legion d’onore per meriti culturali, indicando uno dei personaggi: “Quell’angelo ha la sua luce”, dice. Si vedrà. Intanto aspettiamo una parola definitiva sulla paternità dell’Ecce Homo, olio su tela di 111 centimetri per 86, attribuito al Círculo de José de Ribera e stimato appena 1.500 euro in un’asta madrilena di secondo piano. Il lotto è stato precipitosamente ritirato dal catalogo, due anni fa, per un meraviglioso sospetto. Avvalorato dalla professoressa Maria Cristina Terzaghi, curatrice della mostra al Museo di Capodimonte del 2019: “È lui senz’altro”, ha sentenziato dopo aver esaminato il quadro. Tesi rafforzata dalla perizia di Massimo Pulini, docente all’Accademia delle Belle arti di Bologna: “Si tratta della tela commissionata al maestro da Massimo Massimi nel 1605, al contrario dell‘Ecce Homo di Palazzo Bianco a Genova che ha i caratteri aspri dei seguaci siciliani del Merisi. Ma oltre allo stile del dipinto sono i documenti a rendere più che probabile l’ipotesi”. Sospesa tra gli abissi e la gloria, l’avventura di Caravaggio è ancora e per sempre un infinito gioco dell’oca.