Tony Gaudio è stato il primo italiano a vincere l’Oscar. Accadde nel 1937, premio per la migliore fotografia con Avorio nero: undici anni prima di De Sica (Sciuscià) e venti prima di Fellini (La strada). Nel suo palmares spiccano altre cinque nomination, la partecipazione a più di 900 fra corti, medio e lungometraggi, tre film da regista, il lavoro di sceneggiatore. Ha vissuto nel cinema dal 1903 al 1949, pioniere della settima arte, lasciando una impronta fondamentale. Eppure è uno sconosciuto o quasi in patria, la terra lasciata nel 1906 per cercare gloria in America.

In questi giorni Cosenza, dov’era nato giusto 140 anni fa, gli rende omaggio con una grande mostra. Il ritorno a casa è un parziale risarcimento. In città, scolpita sull’intonaco di un bell’edificio del centro, c’è ancora la vecchia scritta elegante: Foto Gaudio. Lì si trovava il laboratorio-studio di Raffaele, il fratello maggiore, dove già da bambino apprese i rudimenti del mestiere assieme all’altro fratello Eugenio, più piccolo di tre anni, che sarebbe partito con lui per il Nuovo mondo. Due magnifici talenti e nei sogni il cinema che muoveva i primi passi.
A forza di lastre, bagni di sviluppo, obiettivi e carta lucida all’albumina, strumenti rivoluzionari per l’epoca, Antonio Gaetano – il suo nome all’anagrafe – arrivò a frequentare l’Istituto d’Arte a Roma. Divenne cineoperatore, girò pellicole d’attualità e documentari per l’Ambrosio Film di Torino, e con la casa francese Pathé contribuì a Napoleone attraversa le Alpi.
Poi il grande viaggio dei fratelli emigranti. Arrivati a New York, Tony trovò lavoro subito come esecutore di song slides, foto dipinte a mano e proiettate da una lanterna magica per il pubblico dei nickelodeon, le arcaiche sale cinema. Nel 1908 venne assunto alla Vitagraph. Passò quindi alla Independent Moving Pictures: era talmente bravo che venne promosso direttore del reparto operatori, a tu per tu con la stella Mary Pickford, la fidanzata d’America.
Nel 1916, lui e il fratello si trasferirono agli Studios di Los Angeles. Inizio all’Universal appena fondata e successivo passaggio alla società di produzione da cui sarebbe nata nel 1924 la Metro Goldwin Mayer. Eugene – gli americani lo ribattezzarono così – non gli era da meno: resta nella storia il suo 20.000 leghe sotto i mari, in assoluto il primo film subacqueo con effetti speciali.

Anche le vite private dei fratelli si sviluppavano in parallelo. Mogli e buoi dei paesi tuoi: Tony portò all’altare Rosina Pietropaolo, Eugene la sorella Vincenzina, entrambe calabresi. Tutto filava liscio ma nel 1920 una peritonite uccise il minore dei Gaudio. Tony rimase senza l’amato compagno d’avventura, ereditandone il ruolo di presidente nell’American Society of Cinematographers, creata per formare lighting cameraman professionisti: “Per come la vedo io, il fotografo che ama la professione farà del suo meglio per trasmetterne gli aspetti fondamentali ai collaboratori più giovani“, fu il senso dell’incarico.
L’ascesa proseguì con l’approdo alla Warner Bros, l’incontro con il regista-magnate Howard Hughes, la prima candidatura all’Oscar nel 1930 per il leggendario Gli angeli dell’inferno, ambientato durante la Prima guerra mondiale e legato a una serie di record: la lavorazione durò due anni e mezzo impegnando un numero incalcolabile di cineoperatori per le riprese aeree dal vero e costò l’enorme cifra – allora – di 3,95 milioni di dollari. Finché nel 1937 arrivò finalmente la statuetta per Avorio nero, grazie agli stupefacenti giochi di luci e ombre sui volti degli attori.
La foto ufficiale dei vincitori alla cena di gala dice tutto di questo Oscar dimenticato (e della statuetta sparita: nessuno sa dove sia finita). Il secondo da sinistra è Frank Capra, il primo a destra è Walt Disney e al centro, sorridente in smoking, c’è mister Gaudio. È il trionfo di un genio artigiano, artista a tutto tondo. Il magazine American Cinematographer gli dedica la copertina. Dopo aver valorizzato il volto di Greta Garbo, cura in esclusiva l’immagine di Bette Davis, grande star ma poco fotogenica. Fu quella la stagione di massima creatività di Gaudio, che alla Warner lavorò con cineasti del calibro di Michael Curtiz, regista di Casablanca.

Malgrado il carattere difficile e privo di compromessi – nel 1931 il regista Milestone lo cacciò dal set per insubordinazione – era uno dei personaggi più richiesti di Hollywood. Il mago delle luci affinò una capacità fotografica che mirava a ottenere riprese realistiche, usando minuscoli illuminatori a intensità regolabile su facce e oggetti. Il marchio del suo occhio sull’inquadratura era inconfondibile: maestro del bianco e nero, ottenne con il technicolor una nomination nel 1945 per L’eterna armonia di Charles Vidor. Soprattutto creò il cosiddetto ‘effetto notte’ – lighting day for night secondo gli americani – che consente di simulare l’ambientazione notturna in riprese fatte con la luce solare. Una tecnica diventata metafora del cinema stesso, tanto da suggerire a François Truffaut il titolo del suo film La nuit américaine (in italiano appunto Effetto Notte).
Si ritirò dalla scena del 1949, due anni prima di morire d’infarto: “Non c’è spazio per tutto ciò che la memoria lascia riemergere dai suoi meandri. C’è quanto basta per dire che i bei vecchi tempi del cinema erano davvero così: colorati, pittoreschi, memorabili, un momento di preparazione per le glorie a venire. La mente li accarezza con affetto e poi li depone nei suoi recessi a dormire fino all’eternità”, recita il suo testamento spirituale.
Lasciò quattro figli e la moglie cecoslovacca Marie, sposata dopo il divorzio da Rosina. E’ sepolto all’Hollywood Forever Cemetery e la sua memoria è oggi custodita dalla The Tony Gaudio Foundation, sorta a Los Angeles per volontà dei discendenti.