Il film C’è ancora domani di Paola Cortellesi sta compiendo in Italia un vero miracolo: sta riportando la gente nelle sale a vedere un film italiano (con questi numeri non accadeva dall’ultimo Checco Zalone, il popolarissimo personaggio comico interpretato da Luca Medici che detiene il record di quattro film su cinque tra i 10 di maggior successo del cinema italiano) e, in più, sta mettendo tutti d’accordo.
A quasi tre settimane dall’uscita, infatti, quest’opera prima ha già incassato 13 milioni di euro, mentre l’ultimo film della Marvel non raggiunge i due. Un successo alimentato dallo strumento di promozione più efficace che c’è: il passaparola. Appena si esce dalla sala, dopo avere asciugato le lacrime – che sono tante: di gioia, di rabbia, di orgoglio – il primo istinto che si prova è mandare un messaggio a qualcuno/a per dire: “Lo devi vedere”.
Una sorpresa, quindi, ma non un caso. Perché, quando a fare l’arte ci si mette (il) talento, quello vero, il pubblico lo riconosce e lo premia. Sempre.
Eppure, a parte il talento e la simpatia della regista e il cast di volti amatissimi, di elementi per piacere questo film non ne aveva molti sulla carta. Si tratta infatti di una pellicola in bianco e nero che parla di un’epoca lontana, con al centro una donna vittima di soprusi che non si trasforma mai in eroina. E allora, che cos’ha di così stra-ordinario questo film, e perché sta conquistando tutti (e, ne siamo sicuri, conquisterà anche il pubblico degli Stati Uniti, dove si spera arriverà presto, essendo prodotto anche da Netflix)?

Intanto alla base c’è una buona idea: raccontare un momento cruciale della storia d’Italia (il referendum del 1946 per la scelta tra Monarchia e Repubblica) e di farlo “dal basso”, dando voce e lustro a chi fino ad allora voce non l’aveva avuta mai, né nella vita pubblica (quella del ’46 fu la prima elezione a cui parteciparono le donne), né nella vita privata (“tu stai zitta” era il leit motiv con cui si allevavano intere generazioni di ragazze, che passavano in silenzio dai padri ai mariti senza soluzione di continuità).
Paola Cortellesi, che è anche la protagonista del suo film, veste qui i panni rammendati di Delia, una donna ai margini che, come una simil Cenerentola tra i topolini veri, vive alla periferia di una città appena uscita dalla Seconda guerra mondiale e presidiata dai carri armati Usa: una città che è Roma ma che potrebbe essere qualunque altra, dal momento che dal tragitto cortile di casa-mercato-botteghe la protagonista non esce mai. Il suo microcosmo è lì e tutto il resto del mondo non conta, o meglio: non sa (ancora) di contare. Anche se suo marito Ivano (il ruvido eccellente Valerio Mastandrea) le ripete ogni giorno che lei non è buona a niente, Delia si arrabatta tra mille lavori, e non lo fa mica per sé stessa. Anzi. Persino quando prova a mettere da parte un po’ di soldi (suoi), per un futuro regalo alla figlia, lei quei soldi crede di “rubarli”, solo perché non li consegna al marito. La sua vita circolare e monocolore – come del resto tutto il film – viene interrotta solo dai guizzi dell’amica Marisa (una esilarante Emanuela Fanelli), dagli scambi di parole (incomprensibili) con un soldato americano molto gentile, e dai dolci incontri con la vecchia fiamma Nino (Vinicio Marchioni).

Eppure, anche il racconto, al pari dell’idea, è geniale, sotto ogni punto di vista. Dalla ricostruzione interna ed esterna, con i dettagli così fedeli agli originali dell’epoca (e ancora vividi in molti nostri ricordi) alle scene di vita popolare, che tanto hanno contribuito a forgiare anche l’immaginario dell’Italia all’estero. Come risulta evidente dalla scelta del bianco e nero, il cinema neorealista è alla base di questo romanzo corale. Ma, per alleggerirne il dramma, dentro c’è anche molta commedia all’italiana, quella animata dai personaggi sempre con la battuta(ccia) pronta, vedi il suocero Sor Ottorino (il caratterista Giorgio Colangeli, uno dei più bravi del nostro cinema).
La violenza domestica di quegli anni – e non solo di quelli, ahinoi – c’è, ma viene sublimata. E le botte si trasformano in musical, perché non è mica vedendoli, gli schiaffi, che li percepiamo più forti. E anche se la colonna sonora è “stranamente” moderna, la protagonista non si trasforma mai in una icona pop contemporanea, come accade alla Maria Antoinette di Sofia Coppola che ascolta i The Strokes, per esempio. Delia rimane dall’inizio alla fine una donna del suo tempo, ed è questo il bello. E anche se il cantautore Fabio Concato nel ‘46 non era ancora nato, e il collega Lucio Dalla, indimenticato protagonista della musica leggera italiana scomparso nel 2012, aveva appena tre anni, le loro voci e le loro canzoni nel film diventano per Delia e per tutte le donne come lei una carezza: una carezza che queste donne avrebbero meritato tanto e non hanno ricevuto mai.