Terribile e vero, senza speranza come la vita nell’Iran contemporaneo, ma insieme poetico come i film iraniani sanno essere. “Achilles”, debutto di Farhad Delaram, presentato in concorso al Rome Film Fest, prende il nome dal protagonista, un cineasta spezzato dal regime, che ha abbandonato il cinema che amava e ora trascorre le sue giornate pieno di rabbia e risentimento. Ma la vera protagonista diviene presto lei, una prigioniera politica da tempo internata in un ospedale psichiatrico. Dal primo momento in cui la cinepresa inquadra il suo volto, lei diventa il centro del film, anche quando non è in scena. Interpretata da Behdokht Valian, Hedieh è un personaggio ermetico, una donna cui è stata tolta la libertà, tolta la bambina, tolta persino la memoria con l’elettroshock e sottoposta a chissà quali altre vessazioni, ridotta ad un corpo nudo che giace su un lettino di ospedale senza cartella clinica senza familiari, nulla, che si sfoga prendendo a pugni i muri che non la fanno dormire, perché parlano, parlano sempre, dice. Farid, il vero nome di Achilles, che in quell’ospedale lavora di notte come tecnico ortopedico, le porta una polsiera per il suo braccio dolorante dopo i pugni e scopre così la presenza in quell’ospedale di un intero reparto di donne prigioniere politiche. Non riesce a rimanere impassibile. La fa scappare. Il resto è un viaggio verso una sognata libertà attraverso l’Iran, da Teheran al lago prosciugato di Urmia nella provincia nord-occidentale di Shabestar, fino al Mar Caspio e ai confini con la Turchia. Invano.

Il film ha un dialogo scarso, la protagonista vive in un mondo che non ha più aderenza con la realtà, dove tutto le è stato distorto, e l’unica cosa che sa di sicuro è che non vuole tornare lì, intendendo l’ospedale-prigione, e vuole andare al ristorante, un desiderio che, si scopre poi, aveva prima di essere arrestata. Gli occhi di Behdokht Valian hanno una intensità rara, lasciano immaginare le cose terribili che ha visto, il suo viso assapora il vento, il mare, la luce della libertà, ma il suo destino in quel regime è segnato. Come non pensare alle donne che stanno lottando in questo momento in Iran per la loro libertà, ma anche a quelle in Arabia Saudita di cui poco si parla ma che ugualmente lottano per l’emancipazione dal potere del maschio.
Farhad Delaram, noto per il cortometraggio Tattoo, vincitore dell’Orso di Cristallo alla 69a Berlinale, spiega che il film nasce dalla sua esperienza personale: “Nel 2019, nonostante il premio a Berlino, ho a lungo riflettuto su quale fosse lo scopo del mio cinema. Osservando i disordini sociali in Iran, ho percepito una disconnessione tra gli artisti e le lotte reali delle masse. Questo mi ha ispirato la sceneggiatura. Ci sono argomenti che non affrontiamo per paura di ritorsioni. Ho deciso di realizzare questo film con la massima onestà, evitando le sottili metafore che spesso usiamo per affrontare questioni delicate. Credo di aver affrontato questo progetto nel modo più autentico possibile, avvicinandomi a una visione non ostacolata dalla censura. ”
Presentato ai festival di San Sebastian e Toronto è in competizione al Rome Film Fest. Fra Gli interpreti Mirsaeed Molavian, Behdokht Valian, Roya Afshar, Neda Aghighi, Firouz Agheli, Reza Amouzad.
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