C’era una volta. C’era una volta un gruppo di gentiluomini, fuoriclasse eleganti e charmant in smoking e papillon tra Martini cocktail, club esclusivi, jet set, luoghi esotici. Con le carte francesi erano prestigiatori e funamboli: giocavano a bridge – il gioco del ponte, lo italianizzò il fascismo – come nessuna altra squadra, prima e dopo. Mix di razionalità, capacità analitica, intuito e azzardo, li chiamavano Blue Team: cavalieri della Repubblica e orgoglio nazionale. Dominatori dal ’57 alla metà del ’75 sui tavoli di tutto il mondo. Un altro mondo.
Il nucleo storico dell’invincibile armata era formato dalle coppie Giorgio Belladonna e Walter Avarelli, Benito Garozzo e Pietro Forquet, Camillo Pabis Ticci e Massimo D’Alelio. Con l’aggiunta di Chiaradia (detto ‘o Professore) e Siniscalco che giocarono nei primi anni, e Bianchi, De Falco, Franco, Pittalà e Vivaldi nell’ultima parte della parabola. Il team costruì un palmares da sogno: 13 Bermuda Bowl (il campionato mondiale), 3 Olimpiadi e 11 titoli europei.

Se del Blue Team hanno fatto parte giocatori fortissimi, tre sono stati fenomeni assoluti: Giorgio Belladonna, Pietro Forquet, Benito Garozzo. Belladonna, guascone romano, giacca bianca, baffi e risata contagiosa, era estroverso e fantasioso: aveva imparato ad attaccare da calciatore nelle giovanili della Lazio. Un cancro se l’è mangiato nel ’95 a 72 anni.
Tutto diverso lo stile di Forquet, lo Zar, nobile famiglia napoletana con origini francesi. Direttore di banca, aveva una personalità fuori dal comune che imponeva agli avversari. Incapace di fare errori, era un regolarista glaciale: una macchina da punti. Se n’è andato a 97 anni nel gennaio scorso.

Ne resta uno: Garozzo, che con quei due geni aveva fatto coppia. A settembre ha compiuto 96 anni e nel 2017 ha partecipato con la Nazionale ai Mondiali di Lione. Record imbattibile.
“Sono nato nel 1927, ho cominciato a giocare a 15 anni e non ho più smesso. Lo faccio ogni giorno: il bridge è la vita”. Benito Garozzo ha occhi penetranti, una massa di capelli e lunga barba bianca. È napoletano, ha vissuto in Egitto da ragazzo, nell’età di mezzo si è trasferito in Florida e nel Delaware e ora abita a Roma. Gli appassionati lo definiscono The living legend.
Com’è iniziata l’avventura? “Avevo seguito al Cairo mio padre ingegnere e studiavo alla Gioventù italiana del Littorio all’estero. Nel ’43 fui rispedito a Napoli da mia sorella ma ci ritrovammo con i tedeschi alle porte di casa. Io e tre amici passavamo le giornate con le partite tressette, scopone scientifico, mah jong. Finché uno tirò fuori il manuale di un gioco sconosciuto: Le regole del bridge spiegate ai principianti di Ely Culbertson. Mia sorella tradusse il testo e ne fummo conquistati”.

Colpo di fulmine? “Mi piacevano calcio, tennis, basket. Ero bravo agli scacchi. Però mi attraeva il bridge, cercavo di capirne segreti e possibili evoluzioni. Il faro era Eugenio Chiaradia, caposcuola e teorico al circolo Vomero. L’uomo che ideò il Fiori napoletano, uno dei più importanti sistemi licitativi convenzionali”.
Un maestro? “Fu lui a spiegarmi il sistema assieme a Pietro Forquet, l’altro grande interprete del Blue Team. Nel ’61, alla vigilia del Bermuda Bowl, ci fu un’emergenza: fui convocato all’ultimo momento. Vincemmo il mondiale a Buenos Aires”. L’inizio dell’avventura? “Il Blue Team era un concentrato di campionissimi: dieci titoli consecutivi senza lasciare nulla ai rivali, gli americani non digerivano le sconfitte a ripetizione tanto che ci accusarono di imbrogliare. Neppure rispondemmo. I giornali celebravano i nostri trionfi come quelli degli azzurri del pallone, era il Paese a vincere con noi”.
I suoi compagni? “Forquet è stato il primo, poi Belladonna. Diversi ma ugualmente straordinari “. Raccontano che la sua squadra ideale fosse: Forquet moltiplicato per sei. “Pietro era una sicurezza per chi gli stava di fronte”. E poi il tandem con Belladonna: Pelè e Maradona assieme? “Secondo gli storici siamo stati la coppia più bella di ogni tempo”.

A un certo punto voi tre siete andati a giocare con Omar Sharif. “Un divo e un eccellente giocatore. A fine anni ’60 allestì The Circus, formazione in stile Harlem Globetrotter: volle con sé i migliori. Giravamo il mondo sfidando il team Usa degli Aces, gli assi, e il pubblico accorreva a vederci. Soprattutto le donne: Sharif era noto per il suo fascino”.
Poi si trasferì negli Usa? “Sono stato sposato e divorziato e ho avuto due figli. In America ho conosciuto Lea Du Pont, la mia compagna per più di trent’anni. Era una donna molto bella, famiglia influente che dava del tu ai Ford e ai Kennedy, vivevamo nella sua villa di Palm Beach. Ho insegnato bridge a Mar-a-Lago ai ricchi americani nel circolo di Trump. Il bridge non è per lui, è un uomo da poker. Però una sera è venuto al resort e ha detto: sono felice che un giocatore famoso come lei dia lezioni ai soci del mio club”.

Gioca ancora? “Durante l’epidemia Covid ho giocato tutti i pomeriggi sul web. Adesso sfido il computer. Il bridge è una combinazione di matematica, psicologia e logica. Fondamentale è la visione di gioco: la mia è intatta. La tecnica migliora con l’esperienza, quella sì”.
Il resto no? “Sono vecchio, ho perso velocità e sento troppo le emozioni. Comunque sbaglio poco”.
Che cosa continua ad appassionarla? “La ricerca ininterrotta. Ho sviluppato il sistema che si chiama Superprecision ma il piacere del gioco mi ha reso indulgente: riesco a perdonarmi gli errori. Prima non ne facevo”.
Una partita indimenticabile? “Il successo mondiale del ’75: l’ultima grande vittoria del Blue Team. Nella mano decisiva io e Belladonna abbiamo realizzato un Grande Slam a fiori contro il Piccolo Slam senza atout degli americani nell’altra sala”.
Quando smetterà di giocare? “Solo l’ultimo giorno, come il gran maestro Stayman. Chiuderò gli occhi con le carte in mano”.