<Spero che la mia pittura resti, perché lo merita. Capiranno le pittrici che verranno quanto difficile è stato saltare lo steccato che volevano impormi i pittori?>. Giulia Lama è stata pitora nel Settecento veneziano. Donna d’ingegno è vissuta in una società patriarcale, decidendo di non fare figli, non sposarsi e non lasciare mai la casa di famiglia in laguna: il numero 1736 di Calle Longa fu il luogo degli affetti e dei pensieri dove trascorse l’esistenza. Un personaggio senza acuti e slegato da grandi avvenimenti. Poco interessante? Solo all’apparenza. In realtà Giulia Lama è stata una rivoluzionaria: nata il primo ottobre 1681 e morta il 7 ottobre 1747, ha detto molto al suo tempo e molto continua a dire oggi. A riscoprirne parole e opere è la bellissima biografia romanzata dal titolo Calle Longa 1736 (editrice Luciana Tufani), ricostruita da Patrizia Castagnoli con profondità di scrittura e rara finezza psicologica.
La sua fu una storia esemplare. Figlia d’arte, non trovò un incoraggiamento da pigmalione in Agostino Lama, apprezzato pittore di battaglie e stimato mercante di quadri. Tantomeno la madre voleva che la ragazza frequentasse la bottega paterna: portasse piuttosto soldi a casa dedicandosi al ricamo in cui era versata. E se proprio desiderava perseguire i sogni, le era concesso di coltivare in silenzio le rime, la matematica e la filosofia, materie che facevano di lei una felice eccezione. Ma la grande passione di Giulia era un’altra: era nata per dipingere, questo l’aveva scoperto da bambina. Doveva però superare un ostacolo insormontabile: l’ostilità maschile alla sua inclinazione, la discriminazione, gli schemi che rendevano impossibile alle donne cimentarsi con tela e pennelli. Tutt’al più tollerate se erano figlie di, sorelle di, mogli di pittori. Epoca difficile. Specchio di una società chiusa a chiave benché nella Venezia cosmopolita spirasse aria di cambiamento: non era forse vero che i caffè e i salotti riconoscevano ruolo paritario alle dame? Frivolezze, ciacole, maschere.

Per le artiste la libertà restava un miraggio: pochissime riuscivano a imporsi in quel mondo antiquato e cattivo. Una è Rosalba Carriera (nomen omen), ritrattista richiestissima dalle corti europee che sa destreggiarsi nell’alta società. Giulia proprio no. Così anche chi apprezza i talenti della pitora scade nel pregiudizio del body shaming. Scrive l’abate Antonio Conti in una lettera del 1728: <Ho scoperto qui a Venezia una donna che dipinge meglio di Rosalba per quanto riguarda le grandi composizioni. Questa donna eccelle nell’arte della poesia quanto nella pittura e io trovo nelle sue poesie tutta l’armonia del verso del Petrarca; ha studiato in gioventù la matematica col celebre padre Maffei; la povera donna è perseguitata dai pittori, ma la sua virtù trionfa sui suoi nemici. È vero che essa ha tanta bruttezza quanto spirito, ma parla con grazia e finezza, così le si perdona facilmente il suo viso. Lavora in merletti… e vive ritiratissima».
Un carattere indocile e poco accomodante non è capace di mediazioni. <Sono una donna libera, che decide quali obblighi famigliari accettare, non ho voluto che sopra di me o nel migliore dei casi accanto a me, ci fosse una voce maschile a dettare pretese. Con la pittura non ho mai accettato compromessi e ho difeso con intransigenza il mio lavoro>, spiega. Una così è destinata a far scandalo. Determinante l’incontro con Giambattista Piazzetta, stessa sua età, che la prende allieva in bottega. I due condividono affinità e visioni, parlano la lingua del rinnovamento e sentono crescere l’amore carnale troncato più tardi da un’aspra separazione. Con lui, lei infrange la barriera della tradizione: <Disegnavo nudi di uomini e donne. Fino a quel tempo mai era successo a Venezia che una pittrice potesse disegnare assieme ad altri pittori i corpi di maschi nudi>. L’orto di una femmina era sempre stato abitato da fiori, madonne e sante. Nudi maschili, neanche a parlarne. Logico che si scatenasse la maldicenza dei colleghi, che colpì Giulia con violenza: <Ciò che mi ha ferito di più in tutti questi anni sono state la perfidia e l’invidia dei pittori della Fraglia>, cioè la corporazione. La risposta alla macchina del fango fu un guanto di sfida: <Voglio essere una vera lama, non solo di nome, e incidere la corteccia delle belle maniere>.

Ci riuscirà. Il suo trionfo è il concorso vinto per dipingere la pala della Vergine dietro l’altare maggiore in Santa Maria Formosa, a dispetto dei critici che per duecento anni l’avrebbero relegata in un angolo. Come hanno sottovalutato le altre veneziane: Marietta Robusti detta Tintoretta, Caterina della Vecchia (figlia di Pietro, il maestro del padre di Giulia Lama), Chiara Varotari e le allieve Caterina Tarabotti e Lucia Scaligeri, Clorinda Renieri (e la sorella Lucrezia), moglie di Pietro della Vecchia e figlia del fiammingo Nicolas Régnier. E ancora Elisabetta Lazzarini, sorella e allieva di Gregorio: il suo stile era tanto simile a quello del fratello che era arduo distinguerli. E prima di loro stessa sorte era toccata altrove a Lavinia Fontana, Elisabetta Sirani, Fede Galizia, Artemisia Gentileschi. Artiste il cui valore è stato sminuito o ignorato perché la storia è scritta dagli uomini. Vasari sottolineava di Plautilla Nelli: «Avrebbe fatto cose meravigliose se, come fanno gli uomini, avesse avuto commodo di studiare et attendere al disegno e ritrarre cose vive e naturali».
Quanti secoli sono passati prima di proclamare Dottore della Chiesta la monaca Ildegarda di Bingen, che nel Medioevo cantava per comunicare con Dio e fu mistica, profetessa, guaritrice, erborista, naturalista, cosmologa, gemmologa, filosofa, drammaturga, poetessa e linguista? Prima di scoprire Plautilla Bricci, prima e unica architettrice nella Roma del Seicento. Prima di apprezzare le grandi compositrici del Barocco: Maddalena Casulana, Barbara Strozzi, Francesca Caccini. E poi le musiciste geniali dei secoli scorsi confinate in casa e definite in abbinamento agli uomini. Esemplare è la parabola di Maria Anna Mozart, per tutti Nanneri, sorella di Wolfgang Amadeus, compositrice, pianista, insegnante di clavicembalo: il padre portava lei e il fratello, ragazzi prodigio, in tour nella capitali a stupire le folle. Finché, adulta, abbandonò la musica per fare la madre di famiglia: nessuna sua composizione è stata conservata. E la sorella di Mendelssohn, la creativa e instancabile Fanny? Suonava in coppia col fratello, ma il padre non ne tollerava l’attività di compositrice tanto da scriverle nel 1820: <La musica forse diventerà la professione di Felix, mentre per te può e deve essere solo un ornamento>. E ancora Clara, la moglie di Schumann, una delle pianiste più importanti dell’epoca romantica: prima oppressa dal padre-padrone, poi infermiera del marito e sua vestale, salì in cattedra a Francoforte solo quando si liberò della presenza di quegli uomini ingombranti. E quanto ha combattuto per affermarsi Nadia Boulanger, leggendaria musicista e straordinaria maestra di musicisti, prima donna a dirigere la London Philharmonic Orchestra nel 1936?
Giulia Lama e le sue sorelle: l’elenco delle ribelli a cui rendere giustizia è ancora lunghissimo.