Le persone che lo vedono si fermano a guardare anche senza entrare. Grazie alle vetrate, è impossibile non notare l’enorme globo di plastica e bambù esposto all’entrata del 3 World Trade Center. Beverly Baktat, artista nata a Johannesburg e poi trasferita a Gerusalemme con la famiglia, racconta come l’ha progettato, come ha raccolto tutti i materiali e come li ha poi assemblati per creare “un gioiello”, così lo chiama: mentre ne parla le brillano gli occhi. Ogni tanto, anche lei si interrompe a osservare i bambini che ci girano intorno, si fanno le foto e poi entrano curiosi di scoprire com’è fatto e come si confondono i colori.
Cosa prova quando vede le persone attorno a Earth Poetica?
“È molto emozionante per me, perché stanno vivendo la mia arte. Porteranno a casa un po’ della mia opera perché ricorderanno l’esperienza. Se ci fermiamo alle immagini sul nostro cellulare, ce ne dimenticheremo perché l’esperienza non viene dal corpo. Quando, invece, ci troviamo davanti all’opera, la incontriamo e percepiamo anche tutto il significato che si porta dietro. Allora, sentiamo anche tutte le emozioni qui, nello stomaco e si trasformano in un’esperienza, in un ricordo. Come quando siamo bambini che facciamo, tocchiamo, ci muoviamo e poi ricordiamo certe cose per tutta la vita. Per me come artista, il mio successo dipende dall’esperienza che si porta a casa chi vede il mio lavoro, che deve essere diretto, grande, di impatto”.
Ed era questo il suo obiettivo quando ha pensato a Earth Poetica?
“La domanda da cui sono partita era: “Come posso coinvolgere la persona con la mia arte?” Si tratta di psicologia. Ci sono due aspetti molto importanti. Il primo: la sua dimensione. Earth Poetica ha un diametro di 4 metri. In base alle mie ricerche, se fosse stato più grande, sarebbe stato troppo attaccato all’edificio e poco connesso alle persone. Se fosse stato più piccolo, una persona alta 2 m passandoci di fianco lo avrebbe guardato dall’alto. Invece, volevo che il mento di tutti si alzasse, che tutti rimanessimo stupiti dalla sua grandezza, intimiditi, coinvolti. Il secondo fattore riguarda il suo materiale. Se ti invitassi a vedere un progetto sui rifiuti di plastica, non saresti mai venuta perché non ne saresti stata attratta. Quindi dovevo creare qualcosa che fosse così bello che ti saresti dimenticata che è fatto di plastica, come succede quando lo guardi da lontano, e che avrebbe coinvolto tutti, anche le persone che non si avvicinano spontaneamente all’arte, che non vanno a visitare i musei. Da lontano sembra un gioiello, fatto di vetro. Solo quando ci infili la testa, capisci che è plastica reciclata”.

Da dove è nata l’idea del globo fatto di rifiuti?
“All’inizio, cinque anni fa, ero stata contattata per esporre un mio lavoro in questo palazzo del World Trade Center. Quando sono venuta qui e mi sono resa conto del posto, dell’archiettura dell’edificio, delle persone, dei turisti, di quanto è esposto e della posizione in questa area, ho capito che il mio progetto doveva portare un messaggio. Proprio nel viaggio per venire qui, avevo visto un documentario sulla drammatica situazione della plastica: c’erano bambini che vendevano raccoglievano i rifiuti dalla spiaggia per guadagnarsi da vivere, ma comunque questa ne rimaneva sempre coperta. All’epoca, non sapevo che avrei costruito un globo, ma ho cominciato a raccogliere gli scarti e a lavorarci, imparare a modificarli”.
E quando ha capito che avrebbe creato un globo?
“Circa tre anni fa. Avevo bisogno di introdurre la natura. Avevo la plastica, la struttura metallica e la resina epossidica che ho usato. Ma mancava qualcosa. Sono partita per una mia mostra organizzata in Taiwan e ho conosciuto diverse persone. E sono entrata in contatto con il bambù. Da lì mi è venuta l’illuminazione. Sono tornata in Israele e ho cominciato a lavorarci per capire come riuscire a piegarlo, perché si tratta di legno. Non è un’idea che mi è venuta in mente un giorno. È il risultato di molti anni”.
Earth Poetica è il riassunto di tutti i suoi progetti?
“Si potrebbe dire di sì. C’è la plastica con cui avevo lavorato per due mostre in Italia. C’è la tecnica di soffiatura del vetro che ho imparato in Repubblica Ceca. E c’è lo studio sui gioielli che ho fatto durante gli anni di università in Israele”.
Immagino che in questi anni abbia accumulato tonnellate di scarti di plastica. Li userà anche per il prossimo progetto?
“No. Mi sento soffocare dalla plastica. Volevo creare delle piccole versioni di Earth Poetica, ma non ce la faccio.. Ora vado in Wyoming a dipingere i cavalli selvaggi. Così mi ricollego alla natura”.
